Il talento è un dono. Sprecare un dono è da stupidi ingrati. Ergo Nick Kyrgios è uno stupido ingrato. Questo sillogismo, tanto facile quanto ineccepibile, è la base di molto, se non proprio tutto, ciò che da anni si dice e si scrive sul talentuoso (e qui siamo sicuri di mettere d’accordo tutti) tennista australiano, e ha trovato nuova linfa dopo le sue dichiarazioni post sconfitta al primo turno degli US Open. Contro il connazionale John Millman (ora suo compagno di Davis nella semifinale contro il Belgio), numero 235 del ranking ATP al momento dello Slam e che ha cominciato la stagione 2017 a maggio perdendo al primo turno del Challenger di Mestre, Kyrgios ha sfoderato un’altra prestazione decisamente opaca. Un 6-3 1-6 6-4 6-1 in cui si è visto Kyrgios pareggiare l’iniziale set di svantaggio e poi perdere i due successivi anche per via di un dolore alla spalla accusato nei primi game del terzo set. Ma più che la prestazione in sé – e senza menzionare la racchetta spaccata e la discussione con il giudice di sedia che gli aveva inflitto un warning per linguaggio scorretto – ciò che ha fatto storcere il naso agli appassionati di tennis sono le sue dichiarazioni in conferenza stampa.
Rispondendo a una domanda sul rapporto con il suo coach Sebastien Grosjean, Kyrgios tra le altre cose ha detto: “Io non mi applico affatto […] ci sono giocatori là fuori che si impegnano di più, che vogliono migliorarsi, che si danno da fare ogni giorno. Io non sono questo tipo”. Già qui c’era abbastanza materiale per i suoi detrattori, ma, non contento, nella risposta alla successiva domanda (“Riesci a immaginarti un momento in cui lo diventerai?”) Kyrgios mette il carico da undici: “Non lo so. Mi si chiede sempre questa cosa, non lo so. Sul serio non lo so. Probabilmente no, onestamente no”. Apriti cielo. Senza entrare nel merito delle accuse di scarso impegno, inutili in quanto è lui il primo ad ammetterlo, e senza parlare del resto delle dichiarazioni (nelle quali dice di non essere abbastanza bravo per essere allenato da Grosjean) in cui Kyrgios dimostra di essere qualcosa di più di un semplice spaccone, ciò che colpisce è l’accanimento contro il ventiduenne di Canberra in nome del duro lavoro che altri tennisti/sportivi devono fare per arrivare ad alti livelli e restarci.
Come se il talento naturale fin qui non sfruttato al meglio da Kyrgios togliesse qualcosa al loro talento, consistente nel sapersi impegnare duramente in quella pratica assai complessa che è il miglioramento di sé. In realtà il primo a cui Nick sta togliendo qualcosa è se stesso, e forse non è neanche così perché potrebbe realmente non interessargli vincere uno Slam (cosa che ha ribadito in una recente lettera aperta) o lottare per diventare il numero 1 del mondo. Al massimo chi potrebbe risentirsi sono gli appassionati di questo sport, privati della possibilità di vederlo giocare al massimo delle sue potenzialità, ma che comunque continuano a guardare i suoi match perché sanno che ci sarà da divertirsi.
Ma talvolta l’accanimento è talmente accorato da far sospettare che dietro si nasconda, più della sete di giustizia nei confronti di quelle persone che lavorano sodo per ottenere dei risultati nella loro vita, un sentimento di invidia. Invidia per chi pur non impegnandosi riesce molto bene in uno sport che gli fa guadagnare abbastanza per non doversi forzare a impegnarsi più di quanto non faccia. Quando correndo sulla pista ciclabile si incontra una persona sovrappeso che, auricolari alle orecchie, fascetta sulla fronte, magari anche in felpa e pantaloni lunghi, correndo piano gronda di sudore con il fiatone, lo si guarda con sconfinata ammirazione perché è evidente lo sforzo che sta compiendo per fare qualcosa che a noi non implica nessuna fatica. Ma quando qualche centinaio di metri più in là si viene superati con naturalezza da qualcuno la cui falcata rapida e al contempo ampia gli permette di sparire alla prima curva, ecco che la prospettiva cambia: si vorrebbe la forza di volontà del primo, ma potendo scegliere si preferirebbe correre veloce come il secondo.