Da un lato un’arzilla centodiciassettenne, la competizione a squadre nazionali più antica di qualsiasi disciplina sportiva: armata delle fionda della tradizione, del vigore e del fascino di punti fermi come il fattore campo e il tre-su-cinque. Dall’altro l’erculeo circuito ATP, che con la freschezza della (relativamente) giovane età minaccia e maltratta l’insalatiera: a fargli da scudo i nomi degli atleti più valorosi e importanti, che troppo spesso decidono di rinunciare a difendere i colori del proprio paese, per prepararsi a difendere al meglio la propria gloria, e soprattutto punti in classifica e soldi.
È un confronto apparentemente impari: la Coppa Davis arranca e si barrica dietro il dorato e malinconico scudo del mos maiorum. La attaccano da tutte le parti, con stratagemmi volti a indebolirla e alleggerirla, pur di accaparrarsi la partecipazione dei nomi più blasonati. Ma i suoi rappresentanti resistono strenuamente, rifiutano le modifiche, combattono in onore degli antichi capisaldi. Le critiche piovono come frecce, come fendenti che il gigante ATP mena dall’alto del suo potere di influenza: danneggia i top player (che per questo la disertano), rende scomodo il calendario, è faticosa.
Ci provano in tutti i modi: niente più incontri al meglio dei cinque set, sede neutrale per la finale. Se ne propongono di ogni, incuranti della validità degli argomenti: se le semifinali di quest’anno fossero terminate con il verdetto del sabato, immaginate Francia-Australia giocata negli Stati Uniti, o in Giappone. Anche soltanto in Spagna o Germania. Che appeal avrebbe? Che stimolo sarebbe per gli appassionati locali, che certo appassionati sono ma non così trasportati senza la propria nazionale in gara? Per non parlare dei tifosi coinvolti: perché negare a una delle due fazioni di poter ospitare un evento del genere?
Figuriamoci la lunghezza degli incontri: soltanto questo sabato, i croati Mektic e Cilic (quello che è venuto meno in finale a Wimbledon, campione US Open 2014) hanno rimontato due set di svantaggio ai colombiani Cabal e Falla, a Bogotà in un’arena che era ormai diventata un catino infernale. Quattro ore di gioco. Due anni fa Leo Mayer, poi eroe nel 2016 in finale, superò Joao Souza dopo quasi sette ore, nel più classico degli scontri epici contro il Brasile. Perché negare quelle che ogni telecronista, ormai impropriamente, definisce “emozioni da Davis”? Perché abolire un format secolare, in nome della salvaguardia del circuito? Passione è anche rinuncia, e ai propri colori non si dovrebbe anteporre nulla: si dovrebbe rinunciare al resto.
Quelle del tempo sono le piccole rocce che la Davis può scagliare in battaglia: le fotografie in bianco e nero di McEnroe immacolato che trascina gli USA, l’Italia del ’76, Federer che disegna l’ultimo dropshot contro Gasquet prima del trionfo. Il senso di appartenenza ad un team, per una volta, in uno sport che invece isola e addirittura aliena. Il calore del pubblico che non si schiera mai apertamente, e invece durante i tie si trasforma in compagno di team. Perché no, anche i giudici di linea condizionati, che la tecnologia Hawk-Eye ha ormai annullato. Erano altri tempi, ma sembra assurdo tutto questo possa aver perso attrazione.
Certo ci sono campioni che per la patria si spremono all’infinito: Djokovic ha condotto la Serbia, Murray ha vinto la Coppa praticamente da solo. Federer ha invece trionfato con la Svizzera nellunico anno in cui con Wawrinka aveva deciso di dedicarcisi, limitandosi al ruolo di salvatore (della patria ovviamente) nelle edizioni precedenti, quando per ovvi motivi i rossocrociati si trovavano a dover disputare play-out e scontri salvezza. Che belli che erano quei rappresentanti di paesi tennisticamente minori, che pur ben classificati non rinunciavano mai alla Davis: Nieminen, Baghdatis, Paes. Mentre quest’anno, come si legge su Twitter, dei dodici partecipanti alla Laver Cup della prossima settimana, otto erano eleggibili per la Davis. E solo in tre la stanno disputando. Priorità.
Per deporre le armi servirebbero dei vincoli regolamentari, degli obblighi: un cavillo che costringesse i top 10 a dover disputare gli incontri, chissà che si riscopra la passione per un ambiente così caldo e particolare solo una volta che proprio si deve frequentarlo. Contestualmente, l’obbligo di portare in squadra un under 20 o simili, per far sì che l’ardore nazionale nasca e si alimenti fin da subito, evitando che invece le luci del tour possano trascinare e irretire come sirene venali e materiali. Ancor di più servirebbe che i migliori del mondo capissero l’importanza che il tennis, e lo sport in generale, riveste per un pubblico che in esso vede uno strumento di rivalsa, se non di affermazione sociale. E sono cose che i punti e i soldi del circuito non riusciranno mai a pareggiare. Davis sconfiggerebbe Golia con le sole note degli inni nazionali.