La Rod Laver Cup andata in scena lo scorso weekend a Praga ha catalizzato il gotha del tennis e ha zittito gli scettici, offrendo un confronto tra il Team Europe e il Team World equilibrato fino alla fine e stelle che hanno lottato come ossessi fino all’ultimo punto. Ma non è tutto oro quel che luccica.
L’idea di partenza, quella di importare dal golf la sfida tra il Continente più forte e il resto del panorama sportivo, è d’indubbio fascino. Rendere di squadra uno sport individuale nel tennis non è peraltro prerogativa della Coppa Davis. Solo che nella Ryder Cup non si raddoppiano, né tantomeno si triplicano i punti per la vittoria rispetto alla prima giornata. Ogni vittoria vale un punto. All’alba di domenica mattina il Team Europe aveva vinto sei sfide e perse due. Le prime due partite dell’ultimo giorno erano andate a una squadra ciascuna (Isner e Sock avevano battuto nel doppio Berdych e Cilic, mentre Zverev aveva superato Querrey), dunque restavano quattro le vittorie di vantaggio degli europei. Quando Isner ha battuto Nadal, le sette sfide a quattro vinte dai giocatori del Vecchio Continente non erano garanzia di vittoria finale. Nonostante fossero sotto di tre lunghezze a due match dal termine (la sfida Federer-Kyrgios e il doppio conclusivo), gli australo-americani avrebbero comunque potuto vincere la sfida, perché artificialmente in vita dalla strampalata formula del torneo, che con tre punti a vittoria nell’ultima giornata avrebbe loro permesso di alzare la Laver Cup pur con una vittoria in meno (7 contro 6). Roba da mini partitella ai quindici punti alla fine della lezione di tennis tra i due allievi: dopo che uno dei due ha preso una stesa 15-7, il maestro offre al malcapitato l’occasione del grande riscatto col celeberrimo “chi fa questo vince tutto”… O se preferite, rimettere in partita la squadra nettamente più indietro gonfiando i punti degli incontri ricorda quei quiz dove il domandone finale vale dieci volte la posta delle domande iniziali. Non si tratta di essere fessi: è evidente che la formula ha garantito incertezza sul vincitore finale fino alla fine (condizione essenziale per attirare interesse anche l’ultimo giorno), ma se questo significa assegnare la vittoria alla squadra che ha vinto meno partite non è tennis, è altra cosa.
Così come non è tennis il supertiebreak al set decisivo: il fatto che John Isner abbia sostanzialmente detto in conferenza stampa che lui pagherebbe per giocare sempre due set su tre col tie-break ai dieci finale è semplicemente perché questo sistema massimizza le possibilità di vittoria di un gioco come il suo (ultra-legittimo che l’americano lo desideri, sia chiaro) e non è in nessun modo da collegare alla sua famosa vittoria contro Mahut 70-68 al quinto a Wimbledon 2010 (Long John è tanto felice di aver fatto suo quell’incredibile match su tre giorni quanto desideroso di non ripeterlo). Provate a chiedere a Nadal o a Thiem (senza per forza passare da Cuevas o Schwartzman) se preferiscono un singolare così…
Quanto allo show a bordo campo dei giocatori del Team World, non è il caso di scandalizzarsi perché ha contribuito ulteriormente a divertire il pubblico, sia a Praga che in TV, in un’esibizione mai così appassionante e combattuta. Appunto, un’esibizione. Insensato aspettarsi altro a bordo campo da un matto come Kyrgios? In Coppa Davis, ovvero sempre in un contesto di squadra e relativo affiatamento, non lo fa, mai. Intendiamoci, lo stesso kid di Canberra che piange dopo aver dato tutto contro Federer, Roger che vince e viene sommerso di festeggiamenti e abbracci dal resto del Team Europe, Nadal che tifa lo svizzero con la determinazione con cui esulta dopo un passante in uno Slam, tolgono ogni dubbio sulle grandi motivazioni dei giocatori la conseguente qualità di gioco, che è stata ottima.
Ora però torniamo al tennis vero, agli ATP di Chengdu e Shenzhen, dove Peter Gojowczyk sta confermando che la vittoria del torneo di Metz con lo scalpo dell’esperto e più quotato Leonardo Mayer e il n.56 ATP Joao Sousa, che privo di motivazioni non può evitare una figuraccia contro il Davis Man svizzero Henry Laaksonen. O dove, purtroppo, nemmeno l’indomito Paolo Lorenzi protagonista degli ultimi anni e reduce dagli ottavi degli US Open non può limitarsi al compitino per evitare il tonfo contro il n.495 del mondo, già vittorioso con Dutra Silva.
Così come Carlos Moya nel ’97 a Pesaro in Coppa Davis contro un Omar Camporese riesumato a poca distanza dal n.156 del mondo da Adriano Panatta. Dopo due set vinti al tie-break, l’azzurro fu protagonista di una grande rimonta, lasciando di sasso l’allora fresco finalista degli Australian Open, sicuro della vittoria dopo i primi due set. Già, la Coppa Davis. Tre set su cinque e lotta serrata col calore del pubblico nazionale. Certo che deve rinnovarsi, ma cosa può trarre dallo show visto a Praga? Non certo il long tiebreak, un distillato di emozioni che finisce col deprimere il pathos della battaglia campale e dei continui capovolgimenti di fronte. Men che meno il peso diverso dei punti per rendere vive le sfide fino alla fine del week-end: se meriti di vincere perché hai vinto i primi due incontri e il doppio non c’è santo che tenga. Devi passare il turno perché lo hai meritato. No, Laver Cup e Coppa Davis non hanno niente in comune, tranne il fatto che si giocano a squadre. La Davis non può restare accartocciata su se stessa, coi palazzetti pieni e gonfi di orgoglio patriottico ma le tv da un’altra parte, ma non può nemmeno prendere esempio da una manifestazione che in nome dell’equilibrio ad ogni costo e della necessità di offrire quattro match al giorno ricorre a surrogati del tennis. A Chicago l’anno prossimo vedremo magari sei partite al dì coi set ai quattro game oltre al long tiebreak? O tempora, o mores!