(Tutti i virgolettati provengono dall’intervista realizzata da Leonardo Colombati per IL, il magazine de Il Sole 24 Ore, che potete leggere QUI)
Goran Ivanisevic è uno di cui il tennis ha visto tutto, dietro la buccia spessa dei muscoli e delle telecamere. Dal giorno in cui Wimbledon lo rese immortale – o anzi, in cui riuscì a rendersi immortale da solo – l’enorme battitore croato non è più uscito dall’immaginario collettivo degli appassionati, rapiti da quel mix così umano di rabbia e paura uscito fuori al momento di infliggere l’ace finale a Pat Rafter. Per questo ancora oggi è pieno di persone che vogliono sentirlo parlare, di quasi qualunque cosa. Per questo e perché Ivanisevic ha ancora molto da dire.
“La mia vita non sarebbe la stessa se non avessi vinto Wimbledon nel 2001” ammette senza problemi Goran. “Qualcuno ha detto che nello sport l’importante è partecipare, ma è un’idiozia. Chi si ricorda chi ha perso le finali? Fino a quel lunedì io ero un eterno secondo, con tre bei piatti d’argento. Nemmeno io che le ho giocate mi ricordo in quali anni le ho perse quelle maledette finali. Ora, invece, sedici anni dopo, la gente ancora mi ferma per strada e mi ricorda quel sedicesimo game del quinto set”.
Quell’edizione dei Championships Ivanisevic la vinse da wild card, 125esimo della classifica ATP. Nessuno se lo sarebbe aspettato, lui per primo. “La spalla mi faceva così male che dopo ogni match non riuscivo ad alzare il braccio“. Di fatto, fu il suo canto del cigno: “Mi sono operato nel 2002 e sono stato senza giocare per un anno e mezzo. Sono tornato, ma sentivo ancora molto dolore. Così mi sono ritirato”. Una scelta obbligata, ma non per questo meno dura da sopportare. “Solo pochissime persone al mondo possono dire di aver provato un trauma del genere. Io avevo solo trentadue anni, mi sono sentito perduto, non sapevo cosa fare della mia vita. Tutto lo stress a cui ero abituato non c’era più”. A salvarlo è stato il ritrovarsi in un altro ruolo, altrettanto delicato. “Per fortuna mia figlia è nata nel 2003. Fare il padre è stata la mia salvezza”.
La coppa con in cima il piccolo ananas fu quindi l’ultima della carriera di Ivanisevic, conclusa ancora a Wimbledon nel 2004 contro Lleyton Hewitt, in quello che lui, nonostante il risultato, definisce il modo migliore possibile. A chiudere con una vittoria, del resto, sono stati in pochissimi. Uno di loro è Pete Sampras, che Goran definisce senza peli sulla lingua il suo nemico mortale. “Sampras mi ha rovinato la vita. Mi piace, Pete: è un grande campione e un bravo ragazzo. Ma ho perso così tante semifinali e finali contro di lui! Lo odio, sportivamente parlando”.
Il rapporto di Ivanisevic con la sconfitta non è ottimo, lo si poteva capire già allora dalle imprecazioni e dalle racchette fracassate (a Brighton, nel 2000, dovette addirittura ritirarsi da un incontro perché le aveva rotte tutte). Del resto il suo idolo era John McEnroe, un altro mancino piuttosto fumantino. Dover giocare per pagare la terapia anti-cancro della sorella Srdjana, come gli accadde a inizio carriera, ha senza dubbio reso più radicale il suo rifiuto per la sconfitta.
Quel rifiuto ha però sempre fatto parte del suo DNA, tanto quanto i risultati a sorpresa. “La prima volta che ho sovvertito un pronostico è stato a dodici anni contro mio padre” racconta. “Giocavamo su un campo fuori Spalato. C’era molta competizione tra noi due. Mi provocava sempre, sapeva come innervosirmi. Io giocavo contro chiunque, e imparavo da tutti”. Tra il vedere i campioni in televisione e giocarci contro però c’era una bella differenza. “La prima volta che ho incontrato Ivan Lendl avevo una paura terribile. Il primo set l’ho perso già negli spogliatoi. Ma poi ho iniziato a realizzare che anche lui, dopotutto, era una persona”.
Riecco quel lato umano, che molti tennisti cercano di nascondere dietro una maschera e altrettanti utilizzano invece utilizzano come valvola di sfogo. Ivanisevic li ha incontrati quasi tutti: “Ho giocato contro McEnroe e Lendl, e in allenamento anche con Connors e Borg. E poi contro Edberg, Becker, Sampras e Agassi. E alla fine anche con Federer, e Nadal quando era un bambino”.
Il bambino di Maiorca lo batté entrambe le volte ma Goran non sembra serbargli rancore, forse riconoscendo in lui un atteggiamento molto simile al suo. Nonostante entrambi abbiano trionfato a Wimbledon, nessuno dei due ha mai dato l’illusione di credere al verso di Ruyard Kipling riportato sull’ingresso dei giocatori all’All England Club: trionfo e disastro saranno pure impostori, ma trattarli allo stesso modo proprio non è contemplato. “Lo sport è vincere, vincere e ancora vincere” insiste Ivanisevic. “Era per evitare di odiarmi che scendevo in campo e trasformavo il mio avversario in un nemico. Per una birra e quattro chiacchiere in allegria c’è tempo dopo la partita“. Meglio se da vincitore, chiaro.
Nei dintorni di Djokovic: lui è peggio di me. Emanuel, l’Ivanisevic 2.0