Uno dopo l’altro, come i piccoli indiani di Agatha Christie, i top player del circuito maschile sono spariti dalla circolazione in un 2017 falcidiato dagli infortuni. Novak Djokovic, Stan Wawrinka, Andy Murray, Kei Nishikori ma anche altri dietro di loro: tutti vittime di problemi fisici dovuti, più che a un trauma, all’usura. Se vogliamo applicare per intera la teoria per cui nel tennis moderno l’atleta è diventato una macchina, allora sappiamo bene cosa succede quando si lascia una macchina accesa per troppo tempo, che sia un automobile o un computer.
Dei cinque migliori tennisti del 2016, tutti assenti dagli ultimi US Open, uno soltanto è ancora in campo in questo autunno: si tratta di Milos Raonic. Anch’egli tutt’altro che estraneo agli acciacchi, la scorsa settimana a Tokyo il canadese ventiseienne si è ritirato a torneo in corso, per l’undicesima volta in carriera e la terza in stagione (e la prima era una finale). Frustrato, è sbottato puntando il dito contro chi organizza il tennis. La richiesta è stata quella di una stagione più breve, dai ritmi più umani. “C’è bisogno di una riforma. Date ai giocatori la possibilità di giocare in un periodo di sette mesi, in modo che possano concentrarsi su se stessi, sulla salute, ma anche sulla possibilità di migliorare, perché c’è bisogno di tempo. Credo che il tennis sia l’unico sport che vede i giocatori impegnati così a lungo senza la possibilità di riposare” ha detto Raonic, che da qualche settimana ha aggiunto al proprio team Javier Piles, per quindici anni coach di David Ferrer.
Rispetto ad altri sport non c’è paragone, in effetti: una stagione calcistica, con incontri settimanali o al massimo bi-settimanali, dura da settembre a maggio; il tour ATP ha appena due mesi di pausa alla fine dell’anno solare, ridotti ulteriormente per chi partecipa alle Finals o gioca la finale della Coppa Davis. Certo, il vantaggio del tennis è che ogni giocatore può modellarsi addosso la stagione a propria immagine e somiglianza. Ma questa libertà, paradossalmente, viene a mancare per chi gioca più in alto in classifica. I tornei “mandatory” – ovvero obbligatori ai termini del ranking – sono 12, ai quali si aggiungono 4 ATP 500 per chi ha concluso la stagione nei primi trenta della precedente classifica annuale. A meno di non aver superato i trent’anni, età in cui scattano le esenzioni che hanno contribuito al successo dei “vecchietti”. “Bisogna tutelare la carriera dei giocatori e garantire un tennis di buon livello per gli spettatori” ha concluso Raonic, “credo che i tornei abbiano bisogno di una ricontrollata”.
Torto non ha: il calendario è compresso fino allo stremo, spesso richiede repentini cambi di continente, superficie e attrezzatura di gioco. I problemi però fanno parte della ragione per cui sarà quasi impossibile trovare una soluzione in tempo breve. Le licenze per i singoli eventi sono vendute a privati, e le modifiche per il 2019 puntano nella direzione opposta a quella auspicata dal ragazzone di Podgorica – ovvero ad aumentare i giorni di gara per i top player, ingigantendo ad esempio i Masters 1000 di Madrid e Roma.