Nel 1973 la TV americana trasmise uno degli eventi sportivi più attesi di tutti i tempi, con un seguito di 90 milioni di spettatori in tutto il mondo: una partita di tennis fra la campionessa del mondo Billie Jean King (Emma Stone) e l’ex campione e scommettitore seriale Bobby Riggs (Steve Carell).
L’evento, denominato LA BATTAGLIA DEI SESSI, ebbe una grande risonanza in un periodo caratterizzato dalla rivoluzione sessuale e dalla nascita del movimento per i diritti delle donne.
Ma i due campioni rivali, King e Riggs, fuori dal campo, erano impegnati a combattere battaglie personali ben più complesse. King, donna estremamente riservata, non ambiva solo a ottenere l’uguaglianza fra i sessi, ma anche a comprendere la propria identità sessuale nell’ambito della sua amicizia con Marilyn Barnett (Andrea Riseborough). Riggs, invece, che incarna una delle prime grandi celebrità mediatiche auto prodotte, lottava segretamente contro il vizio del gioco d’azzardo, di cui la sua famiglia e sua moglie Priscilla (Elisabeth Shue) avevano fatto le spese. Insieme, Billie e Bobby offrirono uno spettacolo culturale che diede vita ovunque a grandi dibattiti, lasciando un segno permanente.
LA BATTAGLIA DEI SESSI, diretto da Jonathan Dayton & Valerie Faris (LITTLE MISS SUNSHINE) è basato su una sceneggiatura di Simon Beaufoy (THE MILLIONAIRE), presenta un cast composto da Emma Stone, Steve Carell, Andrea Riseborough, Sarah Silverman, Bill Pullman, Alan Cumming, Elisabeth Shue, Austin Stowell, e Natalie Morales. Il film è prodotto da Christian Colson, Danny Boyle e Robert Graf.
Chissà cosa pensa oggi, Margaret Smith Court, di quella partita di tennis disputata 44 anni fa, nei pressi di San Diego, California. Lei che contro un uomo aveva vinto già 21 tornei dello Slam, nel doppio misto. Lei che, quella volta, un uomo lo affrontava da sola. Nessuno glielo chiede mai, neanche adesso che l’argomento è tornato di moda, un po’ come il furgone della Volkswagen, anch’esso proveniente da quegli anni là. Chissà perché sulla sua “battaglia dei sessi”, nessuno la interpella mai. Forse perché oggi hanno tutti paura a metterle davanti alla bocca un microfono, dopo che per lei il concetto di battaglia dei sessi ha virato altrove. O forse perché l’opinione di una che ha realizzato un grande Slam (1970) e che ha sollevato 66 coppe nei quattro principali tornei conta poco. In fin dei conti, quell’incontro a San Diego contro Bobby Riggs, lei lo perse netto. A differenza di quanto fece Billie Jean King.
La si può persino ammirare Margaret Court, la numero uno mondiale della primavera 1973, anno in cui si sarebbe dovuta “accontentare” di tre Slam in singolare su quattro. In questo filmato dal montaggio non proprio analogico, la vedrete sbagliare tanto e non riuscire ad opporsi al 55enne Riggs, più simile a Mike Myers in Austin Power che non ad un tennista. Sentite il suono che facevano i colpi piatti e in chop urtati dai diapason di legno e metallo di quegli anni. Ammirate la visiera da croupier di Riggs, il collettone giallo “aussie” con scritto Margaret, la partita filare via senza uno scossone, immerso in una scialba, schiacciante e deludente superiorità. Era avvenuto “il massacro della festa della mamma”, preceduto da un mazzo di rose che il guitto Riggs le porse come scuse anticipate. Diranno che la Court era molto tesa prima del match. Si permetteranno persino di dire che la Court, 66 titoli Slam (no, dico: sessantasei – titoli – Slam) era una che sentiva la pressione. Lo dirà proprio Billie Jean King (29 anni) in vista del suo incontro con Riggs: “I love pressure and Margaret doesn’t”. Ci provarono così a giustificare la scoppola rifilata all’australiana ed alle donne quel dì. Provarono a dire che era stato un caso, un inciampo e che l’impresa per Billie Jean era possibile.
Chi era Riggs sul campo da tennis? Non il primo arrivato senza dubbio. Vincitore a Wimbledon (1939 singolo e doppio) e due volte agli U.S. Open (1939 e 1941), da professionista batté Budge, Kramer, Segura, Pancho Gonzales e fu considerato per un periodo, sul finire degli anni ’30, numero uno al mondo. Piccoletto, non potente, mobile e tatticamente perfetto, l’emblema del “corto e male incavato”, espressione che a Napoli identifica chi pur essendo basso di statura, è capace di difendersi con furbizia e sagacia. Male incavato, ma pur sempre con 55 primavere sulle spalle, usurate da una vita di eccessi. Billie Jean King, quella originariamente sfidata da Riggs, aveva rigettato inizialmente l’offerta. Avrebbe spiegato di non ritenere che la proposta di Riggs fosse una cosa seria, ma di avere in seguito accettato per vendicare l’orgoglio femminile, ferito dal “Mother’s day massacre”. Si può crederle o no. I perché di Billy Jean sono indubbiamente importanti. A chi li ricerca, Hollywood ed Emma Stone, ingrassata alla ricerca dell’Oscar, sapranno dare soddisfazione.
Ma a me, personalmente, interessano di più i perché di Riggs. Il perché scelse inizialmente B.J. King per lanciare la sua sfida; il perché, il giocare con la Court, con la numero uno mondiale, gli suonò di ripiego, malgrado l’australiana in quel momento fosse più forte di Billie Jean. Sia chiaro, qui si parla di sesso. Della sua “battaglia”. Ed il sesso, come si sa, non è solo quello con cui si nasce. Prima delle teorie gender o meno, c’era la mascolinità di Billie Jean, la sua androginia mai negata, i suoi capelli corti, più corti di quelli di Riggs, il suo discusso matrimonio ed il coming out che sarebbe venuto di lì a pochi anni. Riggs aveva occhi, oltre che occhiali, e con essi puntò Billie Jean come sua degna rivale, non solo tennistica. Io me lo immagino Riggs, mi perdonerete, mentre nel bar del tennis club di Lincoln Heigths, dove nacque, sigaro e birra in mano dopo un’ora di tennis, qualche battuta da censurare sulla campionessa americana se la lascia scappare. Del resto, non erano tempi facili per chi si distingueva, e le donne nel tennis, negli anni “avanti Billie Jean” si distinguevano per il fatto di contare molto poco.
Chi descrive Riggs non descrive esattamente l’emblema del politically correct. Giocatore d’azzardo, sessista, manipolatore nella vita come sul campo. “Se devo essere un maiale sciovinista, beh, allora voglio essere il numero 1 dei maiali sciovinisti” fu il suo epitaffio in vita. Farcì le settimane prima del match con una retorica e delle dichiarazioni da “heel”, da cattivo degli incontri del wrestling americano. Facile immaginarsi allora, con il cinismo dei nostri tempi, che il piccolo Bobby cercasse nella King qualcosa in più di un avversario donna e qualcosa in meno di un avversario femmina. Oppure possiamo anche credere che in un mondo meno globalizzato, voleva solo giocare contro un’altra americana: non scelse però la bella e fotogenica Chris Evert, già in auge al tempo. C’entrava il sesso, e le domande dell’opinione pubblica, la morbosa attenzione del pubblico su di esso.
Margaret Court, giocando così male contro Riggs, era in fondo rimasta al suo posto. All’epoca cattolica, nativa di un’Australia rurale, forse non ci vide nulla di male a perdere contro un uomo, a preservare sul campo quei valori tradizionali e familiari (la donna dietro e l’uomo innanzi), che si andavano corrompendo in quegli anni di soqquadro. Billie Jean era differente da Margaret. Americana, figlia della contestazione dell’epoca. Una che al posto suo non sapeva stare. Pochi mesi prima aveva minacciato che non sarebbe tornata a giocare agli U.S. Open se il montepremi non fosse stato equiparato tra uomini e donne. Avrebbe vinto anche lì.
Si giocò tre su cinque, a Houston il 20 settembre del 1973, nell’americanissimo stadio del baseball Astrodome, di fronte a 30.472 spettatori paganti dal vivo e 90 milioni nel mondo, in una bolgia di paillettes, con Riggs bardato in giallorosso da un ridicolo sponsor (“Sugar Daddy”, maschilista fino in fondo). Dopo il massacro inflitto alla Court nessuno avrebbe scommesso sulla meno quotata giocatrice donna. Beh, a dire il vero non proprio nessuno, perché qui la storia si fa davvero americana. Anzi italo-americana. Hal Shaw, un “caddy” del Palma Ceia Golf e Country Club di Tampa, Florida, racconta che pochi mesi prima della primavera del ’73, si imbatté nel suo personale caso watergate, una sera mentre stava per chiudere il club.
Immaginatevi la scena. Il povero Hal è solo nel club, o almeno crede di esserlo, quando sente delle voci provenire da uno spogliatoio. Si affaccia, di soppiatto, e si paralizza dal terrore quando comprende di essere al cospetto di tre noti mafiosi (pronunciatene ad alta voce i nomi, vi sembrerà di essere in un film di Scorsese): Santo Trafficante Jr., Frank Ragano e Carlos Marcello. Ci mancava solo Jimmy “Due Volte” e i bravi ragazzi erano tutti lì. Gli uomini d’onore discutevano dell’intenzione di un tale “Riggsy”, anche detto “BB”, anche detto “Bobby bolita” (Bobby pallina, poesia…) di giocare due match con delle donne, uno con la Court ed uno con la King e di vincere solo il primo. In cambio, il nostro “Bobby pallina”, chiedeva solo la modesta cancellazione dei propri debiti maturati per il gioco d’azzardo con lorsignori, noccioline (“peanuts”), in confronti a quello che i malavitosi avrebbero incassato con le scommesse truccate.
Ebbene la King batté Riggs tre set a zero, questo lo sapete. 6-4, 6-3, 6-3, diamo anche il punteggio. Se vogliamo restare nel tennis giocato, o meglio entrarci solo per un istante, i giornali del tempo dissero che Riggs giocò male, che ebbe una bassa percentuale di prime di servizio in campo, che la King lo attaccava sulla debole seconda, e che “Bobby pallina”, a metà terzo set, ebbe persino i crampi nella mano destra. Riggsy: quello che, quattro mesi prima, aveva distrutto e fatto fare tre games alla numero uno mondiale. Nell’America emotivamente devastata dalle immagini che giungevano dal Vietnam, nell’America attraversata da cortei di ogni tipo ed ogni genere, nell’America delle razze e dei sessi deboli, di neri e donne che reclamavano diritti, delle feste della pantera nera e delle donne padrone del loro corpo, il tennis volle dire la sua. Da un lato ci furono Althea Gibson e dopo di lei Arthur Ashe. E dall’altro ci fu anche Billie Jean King.
Quel match un po’ farsesco, più simile ad una pagliacciata pugilistica, generò un’eco incontrollabile e ridondante di valle in valle. Una pietra rotolante, staccatasi dallo stadio Astrodome di Houston e precipitata sulla parità dei diritti tra uomini e donne. Se oggi l’unico sport professionistico in cui le donne guadagnano quanto gli uomini è il tennis, ebbene, lo devono anche a Billie Jean King che batté un uomo. O forse lo devono proprio a Bobby Riggs che si fece battere da una donna. E per chi ama essere nichilista, perché no, lo devono anche a Santo Trafficante Jr. che offrì a “Bobby pallina” l’indulgenza in cambio di una umiliante sconfitta.
Chissà cosa penserebbe oggi Bobby Riggs. Chissà il suo sciovinismo da maiale come l’avrebbe presa. E chissà se si sarebbe impegnato di più quella sera a Houston, se avesse saputo che 40 anni dopo quella sconfitta, due donne in un campo dagli spalti semi deserti ed impegnate due set su tre, avrebbero guadagnato quanto gli uomini che per quattro ore occupano il campo affianco, pieno zeppo di spettatori. Non aveva la vista lunga Bobby Riggs, o forse non era un idealista. Se è vero quel che disse e vide Hal Shaw, beh, immaginatelo vincere in quel settembre del 1973 e riservare a Billie Jean lo stesso trattamento riservato alla Court, al fine di impedire la parità tra uomini e donne. Ed ora, se ricordate Pulp Fiction, immaginatevi Bobby Riggs, dopo aver vinto, scappare da Houston ed imbattersi in Zed.
Da allora tante cose cambiarono. In primis cambiò lei, cambiò Billie Jean. Dopo quella partita vinse sì altri due major in singolare, ma per lei che aveva sconfitto un uomo, confrontarsi con le altre donne iniziò a sembrare troppo facile. Aveva bisogno di nuove sfide ed un nuovo nemico all’orizzonte, un orizzonte più profondo di venti metri con una rete in mezzo. La nostra assunse in maniera crescente su di sé il peso dell’emancipazione tennistica delle donne. Fondatrice e per un periodo presidente della Woman Tennis Association, attiva promotrice del Virginia Slim Circuit (serie di tornei nell’ambito americano), dea ex machina dei successi e del cambio di nazionalità di Martina Navratilova, seconda grande icona gay del tennis mondiale.
E, strano a dirsi, cambiò anche Bobby Riggs. Non credo che smise mai di giocare d’azzardo, forse in futuro si limitò solo a non puntare contro di sé. Ma che ci crediate o no, il maiale sciovinista, indiscusso primo nel ranking dei maiali sciovinisti, per tutta la vita che gli restò ebbe un’amica prediletta, con la quale si sentì al telefono anche da ammalato, il giorno prima di morire, ed alla quale chiese, per dignità, di trattenersi dal fargli visita nell’ora del proprio crepuscolo. In quella loro ultima telefonata “Bobby Pallina” chiuse il telefono col fiato corto e dolorante, ma non prima di avere detto a Billie Jean King “I love you”. E questa volta, almeno questa volta, non finse.
Chissà cosa pensa di tutto questo la vecchia Margaret (classe 1942, un anno prima di Billie Jean). Chissà se le sacre scritture in cui si è immersa negli anni le raccontano che tutto questo è stato il disegno Divino. Se si sia accorta che la sua umiliante sconfitta, che il suo involontario sacrificio, finì per elevare sullo sterminato altare della giustizia e della storia Billie Jean King, lesbica, abortista, laica e peccatrice, quasi quanto il suo vecchio amico Bobby. Billie Jean King batté un uomo, e se oggi chiedi, “chi è Billy Jean?” non ti risponderanno dei suoi 12 titoli Slam in singolare, o dei sei trofei a Wimbledon o del quasi Grande slam del 1972. Sfumeranno persino la presidenza della WTA, le Federation Cup vinte da capitano degli U.S.A, il National Tennis Center a Flushing Meadows intitolatole. La prima risposta che ti daranno è che è quella che ha vinto la battaglia dei sessi. Che era, ed è, l’omosessuale sindacalista del tennis femminile. Che era l’amica della Navratilova, e prega che nessuno ti strizzi l’occhietto.
Perché questa storia, come tante altre che restano segrete sotto le lenzuola, è un fatto di sesso, mi sembra evidente. Perché anche in quel campo da tennis, di 44 anni fa, in quella buffa e forse mai esistita battaglia, stavamo tutti a chiederci che gusti abbiamo, che cosa siamo: chi fa cosa a chi, e come lo fa. E il tennis mentre Billie e Bobby giocano, per un attimo scompare. Del resto non so neanche dire se di tennis, qui, abbiamo parlato. Perché quando si parla di sesso, tutto il resto tace.
Agostino Nigro vive e lavora a Napoli Nord. Ha costruito le sue poche fortune sul proprio rovescio a una mano, eppure vive di diritto.