Ve ne avevamo già parlato due anni fa: vi avevamo già descritto il complesso personaggio che è Anastasia Pavlyuchenkova, ventiseienne russa che due giorni fa ha vinto il suo undicesimo torneo in carriera, a Hong Kong. Una finale per nervi fortissimi contro Daria Gavrilova, protrattasi per più di tre ore nella torrida umidità del Sud Est asiatico, battuto da un tifone che ha costretto gli organizzatori a far disputare il match con ben cinque ore di ritardo. Una dimostrazione di tenacia e bel gioco per Nastja, che in carriera, anche a causa di un fisico spesso nemico, non è mai riuscita a togliersi la fama di eterna promessa. L’avevamo incontrata in esclusiva a Roma, durante gli Internazionali, nella sala interviste deserta durante un momento di break: sorridente, nella sua tuta sponsorizzata bicolore e con i capelli ancora bagnati dopo la vittoria al secondo turno contro Sevastova. Al Foro Italico perse in tre set agli ottavi contro l’attuale numero uno del mondo Simona Halep, poi finalista.
Una prima parte di stagione encomiabile, con due titoli (Monterrey e Rabat) e un ottimo tennis espresso a Indian Wells. Si è rivista al top nelle ultime due settimane, con la finale persa a Tokyo e il successo di Hong Kong: “Sì, sono contenta nel complesso, anche se non credo di aver ancora espresso il mio miglior tennis. Più che altro sono contenta di come sto reagendo in campo, vinco partite lottate, e mi diverto. Va bene così, ma posso migliorare”. Undici titoli in carriera, quattro dei quali a Monterrey. Un rapporto viscerale con la città messicana, che ha un valore romantico e sentimentale per Nastja: “Credo che ogni giocatore instauri un rapporto particolare con determinati tornei. A Monterrey ho vinto il mio primo titolo in assoluto, quindi ho una sorta di connessione sensoriale con quel posto. Ma posso dire che il successo di quest’anno è dovuto anche al modo in cui ho preparato la stagione: l’obiettivo era quello di essere costante, tenere un livello alto a lungo per poter fare bene sia in tornei minori come in Messico, che negli Slam o nei Premier”. E la performance di Tokyo ha parzialmente confermato questo stato d’animo: il miglior risultato nei Majors in questa stagione è stato il quarto di finale raggiunto a Melbourne, unico Slam in cui non ci era mai arrivata. Non si è però mai spinta oltre in carriera.
Undici trofei in carriera a 26 anni, quasi otto milioni di dollari vinti, eppure c’è sempre qualcuno che pensa “sì bene, ma non benissimo”. L’etichetta di incompiuta appiccicata addosso, nonostante un curriculum invidiabile e ancora svariati anni di attività davanti a lei. Viene fuori un pensiero molto maturo al riguardo: “Ho sempre voluto far bene e non mi sono mai fermata, mai arresa. Ma so che una carriera è un processo che richiede tempo, non è qualcosa di istantaneo: non puoi pensare di allenarti duramente, mettercela tutta, e poi dal giorno dopo iniziare a vincere ogni torneo, così (schiocca le dita). Tutte le migliori si allenano al massimo, nei tornei più importanti può capitare un sorteggio meno fortunato e diventa difficilissimo. Affronterò comunque il mio cammino come ho sempre fatto, che sia una avversaria top 5 o un primo turno in cui sono favorita. E spero di ottenere prima o poi un risultato importante: alla base di tutto c’è il lavoro, i risultati poi arrivano di conseguenza”. A sostenerla c’è la sua famiglia, composta di sportivi di alto livello: papà Sergey, ex canoista olimpico e mamma Marina nuotatrice professionista. Anche i nonni erano nel giro della nazionale di pallacanestro della URSS: il fratello Alecs, invece, la segue da sempre come coach. Le è rimasto accanto anche quando iniziò una collaborazione con Patrick Mouratoglou, attuale mentore di Serena Williams. Una situazione personale che potrebbe anche mettere pressione, ma non a lei: “No, nessuna pressione, anzi l’opposto. Mi hanno sempre motivata e spronata: se non fossero stati sportivi forse sarebbero stati più accondiscendenti, mi avrebbero sempre detto che sono la migliore, la più forte, di non curarmi delle sconfitte, ma in maniera meno coinvolta. Non avrebbero capito come mi sento, mentre lo fanno eccome: io sono molto ambiziosa, e quando perdo lo accuso più di altri. Loro lo capiscono. Perché sanno che perdere fa male sempre, e mi sostengono”.
Da Junior era una macchina, come già avevamo scritto due anni fa. Il 2006 è l’anno dell’esplosione: prima di compiere quindici anni vince gli Australian Open Juniores (superando in finale Caroline Wozniacki), poi prosegue l’anno tra le ragazzine vincendo a New York, prima di confermarsi a Melbourne l’anno successivo. Inutile dirlo, è campionessa under 18 già due anni prima di prendere la patente. Anastasia è un rullo, il suo dritto schiocca con facilità disarmante e i titolisti cominciano a dedicarsi a lei. Sempre nel 2006 la prima wildcard nel circuito maggiore, a Mosca (dove attualmente risiede, lei nativa di Samara, ex città chiusa del Sud Est russo), seguita da un periodo di assestamento tra gli ITF che la portano a riaffacciarsi tra le grandi soltanto nella stagione successiva, in ambito Slam e sempre grazie a wildcard. Il battesimo è durissimo, con un 6-0 6-1 in quaranta minuti subìto a Wimbledon dalla allora top 10 Daniela Hantuchova, e conseguente pianto in spogliatoio. Dieci anni fa eri il nuovo fenomeno che si affacciava sul circuito, oggi già piuttosto scafata può permettersi qualche suggerimento alle nuove leve: “È una vita dura, e come già ho detto è un processo lungo. C’è da sudare e faticare, essere pazienti e soprattutto umili: vincere un paio di tornei può spingere a montarsi la testa, ma basta un click (altro schiocco di dita), un nulla, e si cade. E fa molto male. Credo comunque che la pelle dura venga con l’esperienza, è l’unico modo. È importante anche avere attorno le persone giuste, che ti sappiano consigliare e guidare”.
E per quanto la strada sia ancora lunghissima prima di guardarsi indietro e tirare le somme di una vita da tennista, c’è spazio anche per qualche rimpianto: “Cinque anni fa. Se potessi, tornerei a cinque anni fa e mi dedicherei al tennis più seriamente. All’epoca non davo il massimo, come invece credo sia fondamentale e ho appena detto. Ho perso tempo, ne guadagnerei molto di più e mi servirebbe. Ma ora posso solo pensare al futuro, perché so che ho ancora molto da dare”.