da Basilea, il nostro inviato
Trentasei anni, svizzero, nato a Basilea. Supportato e salutato dai più di novemila presenti alla St. JakobsHalle, a due passi da casa sua. Ma stavolta non è stato Roger Federer a giocare il ruolo del protagonista: anzi, era in tribuna al fianco di Mirka, in un elegante giacca nera a coprire un’improbabile maglietta a croci rosse. Sotto i riflettori c’è stato Marco Chiudinelli, il gregario di una vita, lo svizzero numero tre addirittura. L’amico di Roger, il davisman inutile che tanto inutile non è stato nel tie di settembre contro la Bielorussia, con i punti decisivi per rimanere nel World Group. Una vita sportiva trascorsa nell’ombra di Federer, che lo ha sempre citato e ringraziato specialmente dopo i successi con la Nazionale, e con cui è cresciuto sin dai tempi dell’infanzia. Per una volta, l’ultima possibile, è stato Marco a sentire il fragore del tifo e a ricevere l’abbraccio caldissimo della sua città.
Chiudinelli ha giocato la sua ultima partita in carriera, almeno in singolare, contro l’olandese Robin Haase (manco a dirlo, assiduo sparring partner di Federer): due set in favore del tulipano, che pure si era fatto riprendere nel secondo quando chiamato a servire per il match, con Chiudinelli che a braccio sciolto si è trascinato al tie-break a suon di vincenti. La sconfitta è arrivata pochi minuti dopo, prima del tripudio della Halle con tanto di lacrime, standing ovation e intervista con la televisione svizzera, al microfono di Heinz Günthardt, ex coach di Steffi Graf e Fed Cup. L’emozione lo aveva colto già durante gli ultimi cambi di campo, in cui ha passeggiato con gli occhi lucidi e l’asciugamano a coprirgli il volto quando seduto. Poi la conferenza stampa, gremita da giornalisti e addetti ai lavori tra i quali Marco gode di enorme rispetto. “Mi sento come se avessi vinto un grande torneo: sto provando emozioni enormi, ma forse ancora devo realizzare davvero. Di certo è un momento cruciale della mia vita, vedere la mia gente in piedi ad applaudirmi è indescrivibile”.
Ticinese sul passaporto ma assolutamente digiuno della lingua italiana, per quanto brillante poliglotta, rinomato nel tour per la sua intelligenza e la sua meticolosità: prenotazioni di alberghi e campi di allenamento, voli, logistica, tutto tenuto sotto controllo senza l’aiuto di un agente o di un assistente. Ed è con questo atteggiamento che si approccia al futuro: “Ovviamente è un po’ presto per pensarci: ma qualcuno mi ha già contattato per farmi delle proposte. Non sono sicuro di rimanere nel tennis, potrei allenare oppure organizzare eventi sportivi. In questi anni ho imparato molto nell’ambito organizzativo, gestionale, quindi forse potrei dedicarmi a quello”. Nel 2014, mentre era infortunato e Severin Luthi rientrava dagli US Open, si occupò del team di Davis come co-allenatore, ascoltato da Federer e Wawrinka: pochi mesi dopo il trionfo contro la Francia a Lille, da panchinaro come spesso è accaduto ma pur sempre membro inossidabile della squadra. In carriera un solo titolo in doppio, a Gstaad nel 2009 in coppia con il connazionale Michael Lammer, anch’egli presente sugli spalti. Nello stesso anno, l’unica semifinale del circuito maggiore, proprio qui a Basilea, persa in due set contro Federer pur avendo set point nel tie-break del primo: “Forse il ricordo più bello della mia carriera, insieme alla Coppa Davis: un’atmosfera incredibile, proprio sotto gli occhi dei miei concittadini, contro il mio migliore amico”.
Best ranking al numero 52 nel 2010, oggi sprofondato ben oltre la trecentesima posizione; un solo top 20 battuto, Andrei Pavel a Doha 2005 (all’epoca il rumeno era 18), in ventitrè occasioni (Davis esclusa). Diciassette gli anni da professionista, durante i quali ha trascorso intere stagioni come journeyman dei Challenger e racimolato un paio di milioni di dollari di montepremi. Tre trofei cadetti in sette finali, l’ultimo lo scorso anno a Wroclaw: “La vita on tour mi mancherà moltissimo. Ho fatto esperienze che racconterò ancora tra vent’anni: viaggi in pullman perché non avevo i soldi per un taxi o un trasporto migliore, stanze doppie o triple per ammortizzare i costi”. Allievo di Jan de Witt, oggi allenatore di Gilles Simon, ha vissuto svariati anni presso la sua accademia a Halle. E poi la passione per la sua Svizzera, che lo ha portato a essere un silenzioso alfiere rossocrociato sempre presente: 8-13 il bilancio in singolare (per lo più dead rubbers), 1-6 in doppio, con l’unica vittoria sempre con Lammer, nel 2014 sulla Serbia: “Giocare in squadra è stato incredibile, specialmente in uno sport come il nostro dove di solito siamo soli. Nello specifico, noi siamo sempre stati una grande famiglia”. Tra una risposta e l’altra anche qualche pausa per far sfumare le lacrime in agguato: “Al microfono in campo non sapevo se sarei esploso a piangere, avevo anche paura di fare brutta figura!”. Giocherà il doppio mercoledì, in coppia contro l’altro ticinese Luca Margaroli, ma non nasconde il segreto di Pulcinella: “Certo mi piacerebbe aiutare Luca, ma mentalmente ho già detto stop. Mi sono iscritto solo perché non ero sicuro che avrei giocato il singolare al lunedì. Sarà un buon motivo per avere un’altra standing ovation, magari”. Sarà forse sempre ricordato come il compagno di giochi di Federer, da bambino. Ma per una notte, Basilea è stata soltanto sua.