“Costruire è sapere rinunciare alla perfezione” cantava Niccolò Fabi. Un messaggio che si presta bene a descrivere i dodici anni sul circuito WTA di Elena Dementieva. Intelligenza arguta, profonda ma mai invadente, una brillantezza garbata, forse troppo in un tennis diventato sempre più muscolare. Una giocatrice atipica, che negli spogliatoi leggeva Dostojevski e giocava a scacchi, cresciuta nel mito di Kafelnikov e di Steffi Graf, che ha trovato la felicità in un oro olimpico. E che non si lamenta di non aver mai vinto uno Slam.
L’apparenza fragile ha per molti coperto la determinazione latente, creandone un ritratto incompleto che esaltava i contrasti e le incongruenze, vedendo l’isteria nella semplice frustrazione per l’incapacità di obbedire ai propri standard.
Ragione e sentimenti – Il suo tennis ha sofferto fino all’ultimo di una discrasia sottile tra l’essere e il dover essere, tra la teoria e la pratica. E anche i suoi numeri raccontano la sua storia, ma l’intensione non va di pari passo con l’estensione, abbraccia tanto ma non scende fino in fondo, non riesce a dire proprio tutto.
Bastano 524 settimane nelle top-20 sulle ultime 529 di attività, bastano 328 settimane nelle prime 10, 46 Slam giocati di fila, 16 titoli vinti e un oro olimpico, due finali e altre sette semifinali Slam a cancellare il retrogusto di una giocatrice che in dodici anni di carriera ha mancato qualcosa, a far svanire il ritratto della “Giocatrice più forte a non aver mai vinto un Major”?
I numeri sfiorano la sorgente della storia, ma ne lasciano la sostanza da sola: e la sostanza è una profonda comprensione del gioco, una profondità razionale che si scontra con un’emotività mai del tutto sopita. Perché Elena ha vissuto in pieno il motto del suo autore di riferimento, per cui “manifestare la personalità è un’esigenza di autoconservazione”. Ma può anche diventare un’arma che si rivolta contro chi la impugna.
Ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto – Come nella finale del Roland Garros 2004, contro l’amica Anastasya Miskina, con cui giocano al club della CSKA (tradizionalmente la polisportiva dell’Esercito) da quando Elena ha dieci anni: e chi perde paga la pizza. A Parigi, scriveva Ronald Atkin dell’Independent, nella prima finale tutta russa nella storia dei ,ajor, hanno fatto certamente peggio. E Elena non ha nascosto lacrime amare di frustrazione, disse di odiarsi per quella partita, la finale più squilibrata sul Philippe Chatrier dal doppio bagel di Graf su Zvereva.
Una finale, quella, in cui è emersa la difficoltà di mettersi alle spalle un’amicizia così intensa e di considerare l’avversaria dall’altra parte della rete come una delle altre. Una finale in cui ha servito dieci doppi falli in sette turni di battuta: colpa, scriveva ancora Atkin, di “un mulinello che avrebbe ottenuto l’approvazione dei pescatori ma non certo dei tennisti”. Frutto non tanto e non solo della fragilità mentale, per quanto il colpo di inizio gioco, con quel suo intarsio di movimenti, sia il più influenzabile da difficoltà di carattere psicologico, di un infortunio alla spalla non curato per tempo.
“Ho letto tutto quello che c’era da leggere sul servizio: a livello teorico ne so più di chiunque altro”, ha spiegato. E torna quella distanza, leggera, tra la teoria e la pratica, torna l’appena accennata difficoltà di spingere la razionalità un po’ più in là, di portarla nel regno dell’applicazione.
E forse non è un caso che una giocatrice così, con questo approccio alla sua professione e ai meccanismi del gioco stia studiando giornalismo; professione in cui potrebbe trovarsi benissimo se si accetta l’approccio “alla Kapuscinski” per cui il cinico non è adatto a questo mestiere.
Arrivederci, Elena – Elena è (stata), e magari sarà ancora, la forza tranquilla del tennis, la giocatrice di vertice che non compare sulle copertine patinate, che non ha flirt che accendono i flash dei paparazzi, per cui il massimo della trasgressione pubblica è stato tingersi i capelli di blu dopo aver vinto l’Orange Bowl. Una ragazza che si allenava con mamma Vera, costretta a volte a tornare a casa e dedicarsi al giardino per disintossicarsi dalle tossine dello sport, che si è commossa fino alle lacrime durante il discorso di addio di Elena a Doha.
Un discorso che ha chiuso un sipario su una carriera, ma non su un’immagine di giocatrice che non sa vincere i match importanti: la finale olimpica del 2000 contro Venus Williams, quella degli Us Open 2004 contro Kuznetsova (al termine del quale Dementieva ha tenuto uno dei discorsi più toccanti di sempre riferendosi ai 300 morti nell’eccidio di Beslan di qualche giorno prima), la semifinale contro Serena a Wimbledon 2009, la più lunga in un major nell’era Open (con Elena che perde una palla break per servire 5-3 nel terzo perché il Falco chiama fuori una palla di non più di due millimetri e Serena che salva un match point con una volée che tocca il nastro). E ancora quest’anno contro Justine Henin in Australia, quando in conferenza stampa la russa, dopo aver vinto il primo turno, si stupì di dover già affrontare la belga.
Un sipario cui si sono aggiunte le parole dell’intervista con Barbara Schett, qui raccolte da Ubaldo, che spiegano come la decisione fosse matura da qualche tempo, e che colora e connota con un tocco agrodolce le lacrime per il ritiro in semifinale al Roland Garros di quest’anno.
Un ritiro che l’ha lasciata senza major in carriera, ma con la gioia dell’oro olimpico di Pechino, che in Russia ha sempre contato molto (e ancor prima nel mondo sovietico, quando le pratiche di allenamento, le politiche e gli incentivi alle Federazioni venivano spesso decisi in base al numero potenziale di medagliati olimpici che la disciplina avrebbe potuto portare). “La medaglia d’oro è sempre stato il mio sogno. Niente si può paragonare all’emozione che ti da giocare per la tua nazione alle Olimpiadi. In Russia tutti sanno cosa sono le Olimpiadi, pochi sanno cos’è uno Slam”.
Una vittoria che ha regalato a Mosca una fontana dedicata a Elena Dementieva, a Elena l’Ordine d’Onore per meriti sportivi e al presidente Medvedev, che gliel’ha consegnata, una racchetta in più da mettere in bacheca. Sarà buonista, sarà retorico, ma Elena è un modello positivo. Lo dimostrano le parole di Barbara, una ragazza di brasiliana che si è innamorata del tennis guardandola giocare alle Olimpiadi 2000 e sul sito Fiercetennis.com, le scrive in una lettera aperta:
“Elena, sei stata la giocatrice che mi ha fatto capire il significato della parola ‘fan’. Sei stata la mia squadra di calcio, il mio modello, il mio supereroe. Quando cresci inizi a pensare ‘che differenza fa nella mia vita se una tennista russa bionda dalle gambe lunghe vince o perde?’. Ma era già troppo tardi. Ero già abboccata all’amo: sono anni che provo a staccarmi, ma come vedi ho fallito.(…)
Sei sempre stata un simbolo di classe, nella vittoria e nella sconfitta, la perfetta definizione di come dovrebbe essere una vera campionessa”.
Alessandro Mastroluca