ATP Finals, il sorteggio dei gironi: Federer con Zverev, per Dimitrov è sempre Nadal
“L’Italia deve giocare la finale di Davis a Milano con la Svezia: cosa aspettano a convocare Omar Camporese? Ha appena perso dal n. 300 del mondo? Non me ne importa niente, bisogna provare a vincere!”. Così Rino Tommasi, in una di quelle digressioni durante una telecronaca con Gianni Clerici che ci mancano da morire. Il dottor Divago e l’alter ego di Tom Salvatori parlavano dell’Italia di Andrea Gaudenzi, Davide Sanguinetti e Diego Nargiso, nettamente sfavorita contro la Svezia di Magnus Gustafsson, Magnus Norman e il doppio Jonas Bjorkman-Nicklas Kulti. Per Tommasi non aveva senso affiancare al Davisman faentino Sanguinetti, troppo discontinuo sulla terra e in evidente calo, sebbene autore di una grande stagione (da ricordare i quarti a Wimbledon e l’impresa in semifinale Davis con gli USA, quando sconfisse Todd Martin sul cemento di Milwaukee). Con tutti i pronostici contro, tanto valeva giocare il tutto per tutto e disseppellire Omar Camporese: “Il miglior Sanguinetti non può battere gli svedesi, il miglior Pozzi non può battere gli svedesi, il miglior Camporese sì. Non m’interessa perdere con gli applausi”. Ecco, il Dominic Thiem che si appresta a scendere in campo all’O2 Arena di Londra per le ATP Finals è messo più o meno come l’Italia del ’98 in finale di Davis contro la Svezia.
Nell’ultima apparizione prima del Masters, a Parigi-Bercy, il n.6 ATP non è andato oltre il terzo turno, ovvero – col bye che lo dispensava dalla prima giornata del torneo – la vittoria troppo sofferta contro il lucky loser tedesco Gojowczyk e la sconfitta contro Fernando Verdasco. Nella conferenza stampa dopo il match con lo spagnolo, Dominic non ha usato mezzi termini, essendo fin troppo onesto con se stesso: “In questo momento non sono in grado di vincere due partite di fila in un torneo come questo”. Cosa ha portato Thiem, consacratosi nel 2016 e quest’anno comunque stabilmente top ten, in questa situazione?
Il suo coach Gunter Bresnik ha suggerito due possibili cause:
1. l’ampiezza del repertorio tecnico a disposizione, che finisce per ritorcersi contro impedendogli d’identificare uno stile di gioco chiaro, uno schema jolly cui appellarsi nei momenti critici del match;
2. la scarsa concentrazione su situazioni di gioco favorevoli: a detta di Bresnik, sul 40-0 Dominic abbassa la guardia e non gioca con la stessa attenzione che mette in situazioni di punteggio più delicate, finendo non di rado per complicarsi la vita.
Oltre a queste, il ventiquattrenne di Wiener-Neustadt deve fare i conti con un’altra lacuna.
Roland Garros 2017, semifinali: sullo Chatrier Thiem affronta Rafa Nadal. L’austriaco ha giocato fino a quel momento un torneo formidabile, spazzando via gli avversari e mettendo a nudo tutti i limiti di Novak Djokovic, umiliato in tre set con un bagel finale incassato da campione uscente dello Slam rosso. Ebbene, contro Nadal è l’ombra di se stesso. Basta aver seguito quella partita per capire che non si tratta di un problema psicologico, ma tattico. Dominic risponde quattro metri dietro la linea di fondo e raramente vi si avvicina. Sul Centrale di Parigi, che ha tra la riga di fondo e la fine del campo tantissimo spazio, adottare questa posizione con Nadal significa ritrovarsi presto a scambiare dalla Bastiglia. Il Rafa 2017 è per l’ennesima volta superbo, ma non ha più la profondità costante che aveva tra il 2008 e il 2010. Quel giorno di inizio Giugno contro Thiem, paradossalmente, i dritti corti diventano un’arma in più perché l’avversario, da dove parte, deve ogni volta fare chilometri per colpire bene, col risultato che spesso i suoi colpi finiscono lunghi. Per tutto il match non c’è stato verso, l’austriaco ha continuato imperterrito a remare lontano dal fondo, subendo passivamente la ragnatela devastante del campione di Manacor. Poche scuse, da n.7 del mondo, sulla superficie preferita e con lo scalpo di Djokovic ancora in mano, non te lo puoi permettere.
Dopo Parigi e la fine della stagione sull’amata terra, è iniziato però il vero calvario del campione austriaco, il cui segno premonitore è stata l’inopinato crollo sull’erba turca di Antalya con il n.222 Ramanathan. Oltre agli ottavi sia a Wimbledon sia a New York (uscire con Berdych a Church Road e con del Potro a Flushing Meadows ci può anche stare), il vuoto cosmico: tra Halle, Antalya, Washington, Montreal, Cincinnati, Chengdu, Tokyo, Shanghai e Vienna, il n.6 del mondo ha vinto due match di fila solo in Ohio. Dopo Wimbledon, ha racimolato sul duro lo straccio di 5 vittorie su 13 match al meglio dei tre set. Il fatto che in 4 di questi tornei abbia avuto match-point a favore (a Washington con Anderson, a New York con del Potro, a Shanghai con Troicki) è un’aggravante, se sei un top ten.
Poca lucidità tattica nei match più importanti, difficoltà a trovare uno schema di gioco ideale, concentrazione troppo altalenante. Per uno che è stabilmente nei primi dieci del mondo e ha ancora molti anni davanti, niente d’irrisolvibile. Solo che le Finals stanno per cominciare. Come può fare il vincitore di 8 tornei ATP per giocare all’O2 Arena al meglio delle sue possibilità attuali?
Dimenticandosi che si gioca sul duro indoor. Non importa se anche nei giorni migliori sulle superfici veloci ha sempre fatto fatica, deve fingere di giocare sulla terra. Liberare il braccio, ricorrendo ad accelerazioni lungo linea, specie col rovescio, seguite dalle palle corte. Sotto un tetto sul veloce, contro Federer o Nadal sarebbe una strategia suicida? Può darsi, ma non importa: in questo momento l’austriaco è in difficoltà di fiducia e risultati. Se comincia anche a pensare che è su una superficie maledetta, che fa troppe variazioni e finisce per andare in confusione, che sul 40-0 perde la concentrazione, che non imbrocca due partite di fila, beh, può fare a meno di partire per Londra. Se invece gioca senza pensare, braccio sciolto e mente libera, può diventare la sorpresa del Master. Oppure può rimediare tre figuracce in altrettanti match. Nella situazione in cui è, farebbe una gran differenza? Ha ragione Rino Tommasi, bisogna provare a vincere.
London Calling: