Nel tennis del futuro c’è anche Quinzi, il lottatore (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
No, non è il tennis dei nostri padri. Dietro quel tunnel con immagini e spettatori in continuo movimento che ti accompagna nell’arena c’è un’astronave con il tempo fissato da qualche parte nel futuro, uno spazio quasi metafisico dove tutto quello che conoscevamo di uno sport e dei suoi principi non esiste più se non nella sua forma primordiale, cioè la battaglia agonistica tra due uomini. Il resto è un volo verso nuovi orizzonti, chissà quanto vicini. Così, l’arbitro sta solo sul cuor della terra, senza più lo scudo dei giudici di linea, sostituiti dall’Occhio di Falco su tutte le righe. E di certo fanno impressione i coach con quelle enormi cuffie alle orecchie, le stesse che pochi metri più in basso, ai cambi campo, inforcano i giocatori, per ascoltare i suggerimenti del loro angolo quasi fossero in sala d’incisione a cercare la nota giusta, mentre sul tablet accanto alle loro panchine possono seguire in tempo reale le statistiche del match. Una rivoluzione 4.0, un salto addirittura più culturale che tecnico o tecnologico, ovviamente ancora difficile da metabolizzare, per tutti: tanto che perfino l’espertissimo e bravissimo Carlos Bernardes, giudice di sedia di lungo corso, nel secondo game del terzo set tra Medvedev e Khachanov chiama il net su un servizio di Karen, chiedendo immediatamente scusa. Perché adesso si gioca anche dopo il tocco.
C’è una parola che a fine serata risuona nelle dichiarazioni di tutti i protagonisti: le nuove regole sono una sfida. Loro, appartenenti appunto alla Next Gen, le maneggiano tra curiosità, convinzione e qualche dubbio. A suo modo, il moscovita Daniil Medvedev scrive la storia, vincendo la prima partita di sempre dell’evento. E accogliendo il ribaltamento della tradizione con soddisfazione: «Queste novità mi piacciono, hanno portato freschezza. I set ai 4 richiedono più intensità, ma a fine stagione non è poi così male accorciare gli incontri. E poi porterei subito sul circuito l’orologio tra un punto e l’altro, perché spesso noi non ci accorgiamo del tempo trascorso tra un punto e l’altro». Il russo, invece, ha faticato a digerire il pubblico in movimento anche durante gli scambi: «All’inizio è stato difficile concentrarsi». Questione di gusti, a dimostrazione che il cammino è appena cominciato, se è vero che per il rivale sconfitto, Khachanov, quello è stato il momento più divertente: «Sentire la folla agitarsi continuamente ti mette adrenalina. Piuttosto, i set a 4 sono troppo corti, richiedono un adattamento complicato». Nel complesso è una promozione piena, e il canadese Shapovalov, il più giovane del lotto con i suoi 18 anni, va anche oltre: «Sono favorevole, il tennis ha bisogno di più azione, di partite più corte e più intense, resistere cinque ore dentro e fuori dal campo non è facile».
Poi ci sono i match, che rimangono l’essenza del tennis con qualunque legge si giochi. Livello buono, a tratti eccelso nel primo incrocio, quello appunto tra gli amiconi Medvedev e Khachanov. La superficie piuttosto lenta e la formula favoriscono i difensori attivi come Coric, in alcune accelerazioni di dritto davvero simile al primo Djokovic, o Chung, il coreano timido che con le armi della regolarità sorprende Shapovalov, il favorito del pubblico, troppo falloso con il suo stile spumeggiante. Molti applausi anche a Quinzi, che fa match pari con la testa di serie numero uno Rublev, rivale di tante sfide da ragazzini che adesso però lo precede addirittura di 269 posti in classifica (37 a 306). Però Gianluigi rimane attaccato alla partita fino al tie break del quinto, sorretto da un grande servizio e da un gioco sempre propositivo. A volte ci sono sconfitte che valgono quanto una vittoria (…)
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Più videogame che tennis, Federer è un’altra cosa (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)
Il videogioco, purché non se ne abusi, è divertente. Fiera di Rho, capannone uno, luci soffuse da bisca, stunz stunz come in discoteca, frotte di ragazzini: là dove sorgeva Expo, per cinque anni l’Atp sperimenterà nuove formule nel laboratorio Next Gen con lo scopo di non farsi trovare impreparata quando la generazione dei fenomeni (guidata da Federer e Nadal) arriverà al capolinea. La nouvelle vague in azione a Milano, più uno sport svecchiato, insomma, dovrebbero garantire la prosecuzione della specie. Tutto da vedere. Intanto (forse) è giusto procedere per test. Le prime cavie sono Daniil Medvedev e Karen Khachanov, protagonisti del derby russo che ci porta nel tennis virtuale versione 3.0. Prima novità, il campo cosparso di sensori: addio corridoi (citazione del vecchio Wtc di Dallas e del Master newyorkese al Madison Square Garden), bye bye giudici di linea. In questo tennis — o presunto tale — McEnroe sarebbe stato soppresso in culla: nessuno con cui prendersela a morte, nessuno da insultare per uno strafalcione. La palla fuori è chiamata (out o fault) da una voce meccanica con vago accento inglese.
Sopravvive il giudice di sedia: l’esperto brasiliano Bernardes declama i punti e suscita risate a scena aperta quando urla «let» sul servizio. Riflesso pavloviano, residuo ancestrale: qui sul campo del futuro la rete vale, prendere o lasciare. Si sperimenta tre set su cinque, al meglio dei quattro game. Tie break su 3-3, subito punto sul 40-40 (deciding point). La scomparsa del vantaggio, quell’anticamera del paradiso o dell’inferno che poteva durare interminabili minuti, è un colpo al cuore per i nostalgici. Ma è, anche, la ragione principale dell’innovazione, un passo avanti verso il sogno proibito di tutte le televisioni: avere match di durata fissa e non variabile (abolire vantaggi, è indubbio, aiuta). Il nuovo punteggio e l’orologio che scandisce i tempi morti (25″ per servire, 1’3o” al cambio di campo) premiano più il ritmo della strategia. Bello lo sfondo con i palchi simil-Scala. E che buffe le cuffie da rapper per parlare con il coach in tribuna. Ma è fast food lontanissimo dall’esperienza gourmet (…)
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Il fast tennis passa l’esame: “Regole toste, ma divertenti” (Stefano Semeraro, La Stampa)
Alla fine, il tennis 2.0, quello della cosiddetta Next Gen(eration), non è brutto come sembrava. Non ideale, perché il tennis per chi lo ama da duro e puro resterà sempre quello – molto Old Gen – al meglio dei cinque set e senza tie-break. Ma nemmeno il temuto flop. All’urto della prima giornata delle Atp Next Gen Finals di Milano, insomma, le regole sperimentali – set ai quattro game, niente vantaggi né «let», pubblico libero di muoversi e la vociona elettronica dell’Occhio di falco a sostituire quella dei linesmen – hanno retto. Serve concentrazione «Sono regole toste, ma mi piacciono», dice lo ieratico Hyeon Chung il coreano con gli occhiali che ha seccato in quattro set il beniamino del pubblico Denis Shapovalov. «Cambia molto – aggiunge Daniil Medvedev, che nel primo match di giornata ha rimontato l’altro russo Karen Khachanov – perché devi stare concentratissimo dal primo punto all’ultimo, e questo separa chi è forte mentalmente da chi non lo è. L’unica cosa che mi ha dato fastidio è il pubblico: si muovevano e parlavano tutti».
Lavori in corso, insomma, con gli inevitabili disagi. Con le tv che mettono il grano e chiedono in cambio tempi fissi e palinsesti stabili, e atleti che puntano a guadagnare sempre più sudando sempre meno, prima o poi, e a meno di scovare dirigenti scolpiti nella roccia, bisognerà rassegnarsi ad uno sport diverso da quello che conosciamo. Sapori piccanti Addio ristoranti stellati, e se domani bisognerà proprio scegliere fra il McDonald’s e il Kebab forse sarà meglio questo tennis fast food che promette sapori forti, piccanti e un po’ facili – anche un break a inizio set pesa come un macigno – alla minestrina riscaldata di certi match tradizionali al meglio dei tre set. Comunque meglio, viene da dire, dei videogame alle Olimpiadi.
«In realtà non cambia tantissimo», spiega Corrado Barazzutti, il nostro capitano di Coppa Davis. «I set accorciati sono un’idea di quindici anni fa, la differenza la fanno la mancanza dei vantaggi, che all’Atp hanno stimato faccia risparmiare una ventina di minuti, e quella del “let”. Tanto valeva, allora, lasciare i set a sei game e introdurre solo il “no ad” e il “no let”». Per ora è difficile immaginare un Grande Slam giocato con queste regole. Semmai sarà roba da Next-Next Gen (…)
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Quinzi, non era un’allucinazione (Claudio Giua, repubblica.it)
Ha ragione a disertare le Next Gen Finals chi pensa che l’essenza del tennis sia l’immutabilità di regole ideate centrotrent’anni fa e codificate quarant’anni dopo. Restino a casa quanti considerano imprescindibili, nella sceneggiatura di un match, le discussioni su “è dentro!” “no, è fuori!” e le contestazioni ai giudici di linea e sedia. Si prendano una salutare pausa dal tennis quelli convinti che i tempi morti tra uno scambio e l’altro abbiano giustificazioni tecniche e tattiche. Gli altri si divertano. Come faccio io.
La partita d’esordio del torneo milanese tra gli otto migliori nati dal 1996 in poi spazza subito via alcuni dei dubbi dei puristi, contrari per principio alle novità sperimentate qui dall’ATP, la potente Association of Tennis Professionals. Karen Khachanov, 21 anni e 9 mesi, e Daniil Medvedev, 21 anni e 7 mesi, si confrontano per un’ora e cinquanta minuti – più della durata media di una partita al meglio dei tre set di un Masters 1000 – in quattro set tirati e senza distrazioni, dove l’equilibrio si conferma nei frequenti 40 pari risolti dal punto secco e nei tie break nella seconda e nella terza frazione (alla fine Medvedev prevale per 2-4 4-3 4-3 4-2). A emergere nette sono la riduzione drastica di parecchi sovrappiù rispetto al gioco, l’eliminazione di alcuni condizionanti fattori esterni e l’assenza dei game senza storia durante i quali gli avversari si limitano a prendere le rispettive misure. Qualche esempio: la sostituzione degli umani con i robot per la valutazione delle palle dubbie (out or in?) sottrarrebbe a Fabio Fognini i preferiti capri espiatori; Ernests Gulbis non potrebbe più protestare se infastidito dal pubblico, autorizzato con le regole Next Gen a muoversi sugli spalti senza restrizioni; Andy Murray, esperto di time-out medici, si dovrebbe limitare a ciondolare il testone dopo l’unica pausa di tre minuti concessagli; uno lento a carburare come Tomas Berdych sarebbe costretto a cambiare la preparazione e l’approccio al match; a Novak Djokovic toccherebbe rinunciare all’estenuante rimbalzo delle palla (anni fa ne contai fino a 19).
Avendo un’età media inferiore ai vent’anni, il pubblico pomeridiano dell’arena rossa, grigia e azzurra ricavata nel padiglione 1, il più vasto della Fiera di Rho, esplode la prima volta quando vede avvicinarsi al campo il primo dei nuovi idoli biondi boccolosi del tennis mondiale, Denis Shapovalov, canadese nato il 18 aprile 1999 a Tel Aviv da genitori immigrati da Madre Russia, protagonista del circuito maggiore tra agosto e settembre quando a Montreal ha battuto Juan Martín del Potro e poi Rafael Nadal per raggiungere l’ingiocabile semifinale contro Sascha Zverev. Poche settimane dopo, nello Slam newyorkese, Denis ha superato le qualificazioni e poi ha eliminato Medvedev, Jo-Wilfried Tsonga e Kyle Edmund. L’ha fermato al quarto turno lo spagnolo Pablo Carreno Busta. Nonostante il tifo a favore, oggi il ragazzo cede in quattro set (4-1 3-4 3-4 1-4) all’imperscrutabile coreano Hyeon Chung, che con sicurezza sta scalando le classifiche mondiali. Quando i cronisti, mai particolarmente fantasiosi, gli chiedono se gli piaccia o meno la formula Next Gen, Shapovalov risponde con più sale in zucca: è presto per dirlo, ma per noi è lavoro, ci abituiamo presto.
Per il resto, è entusiasmo adolescenziale alle stelle per il match-esibizione tra altri due biondi da sitcom di Disney Channel, il ventenne tedesco numero 3 al mondo Zverev e il diciannovenne greco Stefanos Tsitsipas, numero 87 del ranking ATP, certo futuro protagonista della Race to Milan 2018. Archiviata l’agevole vittoria del croato Borna Coric sull’americano Jared Donaldson (4-3 4-1 4-3), è Gianluigi Quinzi, il qualificato italiano che è numero 306 ATP, a scaldare il cuore di quanti gremiscono il Padiglione 1. Il marchigiano affidato alle cure del coach Fabio Gorietti dimostra che le speranze di quando vinse il torneo junior di Wimbledon nel 2013 non erano affatto un’allucinazione collettiva. Opposto ad Andrey Rublev, testa di serie numero 1 del torneo, ATP 37, quarto di finale agli UsOpen 2017, ovviamente biondo seppure senza boccoli, si prende di forza il primo set, non riesce a contenere il russo nel secondo, lotta fino al tie break nel terzo. Prima del quarto set Gorietti gli dà alcuni consigli via radio (si può, adesso) che cambiano il segno del match. Grazie a un atteggiamento positivo e a una chiara visione di gioco, Gianluigi conquista a zero il quarto set e guadagna il tie break del quinto. Perde (1-4 4-0 4-3 04 4-3), ma da oggi è obbligatorio tornare a sperare che il marchigiano, a lungo allievo dei formatori di Bollettieri, la smetta di essere una speranza per diventare una realtà (…)