Quinzi: “Diventerò cattivo come quando gioco ai videogames” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Allora non è utopia. Allora anche Gianluigi Quinzi può ambire a illuminare da stella il cielo delle Next Gen. E forse Milano può diventare la rampa di lancio verso terre di gloria inesplorate. Gianluigi, torniamo indietro alla finale di Wimbledon juniores 2013: lei trionfa e una nuova epoca d’oro del tennis italiano sembra aprirsi. Invece dal giorno dopo cos’è successo?
«Che la pressione e le aspettative mi hanno fregato. Ero diventato quello che doveva vincere tutto, che tirava il dritto con lo stesso movimento di Nadal, e non ho saputo gestirlo. Per carattere, se le cose non vanno, tendo a tirarmi indietro».
Si spiegano così gli 11 cambi di allenatore in quattro anni?
«In parte sì. Alcune volte non mi sono proprio preso con il coach, altre volte loro si sono presentati male, altre volte è stata anche colpa mia che ho deciso troppo in fretta. I cambiamenti un po’ mi spaventano e se non portano risultati mi fanno perdere fiducia».
Però ora a Foligno, con Gorietti, sembra aver ritrovato serenità.
«E’ l’ambiente ideale, idee chiare e tanto lavoro. Soprattutto, nel gruppo non c’è invidia e allenarsi ogni giorno con Fabbiano e Travaglia (altri allievi del coach, ndr.) è uno stimolo, perché sono giocatori di livello. Da junior spesso mi è mancato il confronto, nelle Accademie sei tu il più forte e non hai il metro di paragone».
Ha conosciuto l’invidia?
«L’invidia magari no, ma la pressione è comunque una cattiva compagna: ti porta a fare cose che vanno oltre le tue possibilità del momento perché credi di essere già arrivato, perdi un po’ di umiltà. Ho girato per il mondo, ho parlato con tanti altri ragazzi: neppure in America, o in Australia per Kyrgios e Kokkinakis, c’era così tanta attesa. Mi sono tolto dai social, così resto tranquillo».
La partita con Rublev però ha dimostrato che Quinzi può stare a questo livello.
«So di essere sulla strada giusta, però lo ammetto: con Rublev non pensavo di vincere. In realtà non pensavo di vincere con nessuno, perciò mi sono detto “Gian, fai la tua partita”. Non è un problema tecnico, non mi sento inferiore agli altri 7, ma come intensità di gioco e resistenza atletica sono ancora lontano. Ma questo torneo può essere una svolta».
Qual è la differenza tra lei e gli altri avversari di Milano, che da junior ha battuto spesso?
«Nei punti importanti io faccio ancora cavolate e loro no».
Quinzi pensa all’immediato o ragiona in prospettiva?
«Voglio solo migliorare. Se fai le cose giuste, alla fine vinci le partite. O comunque non hai rimpianti. Certo, io ho imparato anche ad accettare le sconfitte, dovrebbe farlo anche l’ambiente dello sport: non è che se perdi sei scarso per forza, magari hai solo bisogno di tempo».
Lei se lo sta dando, il tempo?
«Mi pongo degli obiettivi realistici. Sarebbe importante, ad esempio, arrivare in fretta nella top 200 (ora è 306, ndr.) perché con quella classifica puoi pensare a una programmazione diversa. E non mi pesa immaginare di raggiungere il livello che voglio a 27/28 anni, ci sono tanti esempi di giocatori maturati tardi».
Lei ha cominciato a girare il mondo a 13 anni. Cosa si è portato dietro da quelle esperienze?
«Ho imparato a stare solo e a fare i conti con la mia solitudine. La famiglia, gli amici ti mancano, ovvio, ma non sono uno di quelli che a un certo punto deve cercarli per forza (…)
E al futuro cosa chiede? «Di mettere nel tennis la stessa cattiveria che ho nelle sfide ai videogame di guerra contro mio fratello».
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Tutti stregati da Shapovalov (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)
Entra in campo, con il faccino vispo da fumetto e il cappellino alla rovescia che tiene ferma la zazzera bionda, e lo stadio pulsa di allegria Signori e signori, grandi e piccini: Denis Shapovalov, il più giovane (18 anni) e il più amato del torneo. Il numero 51 del mondo e il 3 delle Atp Next Gen Finals, ma Rublev (n. 36) e Khachanov (45) che gli stanno davanti hanno rispettivamente due anni e tre anni più di lui. II più basso di tutti (1,83) ma probabilmente il più scafato, ‘unico che nell’atmosfera da burlesque della cerimonia del sorteggio non sembrava troppo a disagio…. Quasi certamente il più sciolto, il più arguto davanti alla stampa. Sicuramente il più dotato in campo, come si è visto anche ieri sera nel match con cui ha buttato fuori dal baby Masters la tigna un po’ affaticata di Gianluigi Quinzi.
Un tennis d’assalto, con qualche lato ancora grezzo, ma un rovescio (mancino) a una mano sola che scatena paragoni: più John McEnroe (naaa..), Henri Leconte o Petr Korda? Per Mats Wilander è un cocktail di Roger Federer e Rafa Nadal, ma forse – dicendolo piano piano – come gioco assomiglia più di tutti a Sua Immensità Rod Laver. Insomma, un puzzle di leggende. O se preferite, un talento tutto nuovo. «Bello sentirsi paragonare a campioni del genere, ma andiamoci piano: non ho ancora vinto nulla», dice con la misura di un trentenne. Quest’anno all’Open del Canada ha fatto le scarpe a Del Potro e Nadal prima di sbattere contro Zverev; agli Us Open è uscito dalle qualificazioni e si è fermato solo in ottavi dopo aver castigato Jo-Wilfried Tsonga. Oggi si gioca le semifinali del baby Masters contro Rublev, un posto nel futuro dei grandi comunque lo ha già prenotato.
Denis è cresciuto in Canada ma è nato a Tel Aviv da genitori russi. Mamma Tessa, la prima che gli ha messo una racchetta in mano, è ebrea, papà Viktor un uomo d’affari ortodosso che nel 2002 ha creato l’academy di famiglia, «Tessa Tennis». Mamma ha provato a impostarlo con il rovescio a due mani, lui si è ribellato in fretta staccando la destra: «Scusa mamma, mi viene meglio così». Ammira Nadal, adora la tensione dei grandi match: «Sì, mi piace: qui poi giochiamo senza vantaggi e questo mette più pressione sia su chi serve sia su chi risponde». Ha battuto l’idolo di casa, e si è scusato con sapienza da volpone: «Perdonatemi! Ma Gianluigi ha qualità, diventerà un grande giocatore (…)
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Non è mica questione di Federer (Claudio Giua, repubblica.it)
Eccoli qui, quelli che arrancano di malavoglia fino alla Fiera di Rho perché comandati dal caporedattore e quelli che il biglietto se lo fanno spedire a casa da uno sponsor: si lamentano perché hanno dovuto prendere a Porta Garibaldi il locale della Trenord e camminare dieci minuti per raggiungere il Padiglione 1, poi stanno due ore a bocca aperta per lo straordinario spettacolo di sport, son et lumière e se ne vanno dicendo: beh, Federer è un’altra cosa.
Sì, Federer è un’altra cosa. Anche Gianluigi Quinzi ne è consapevole. Anzi, il marchigiano di casuali natali cittadellesi (Padova) è stato talmente provato e forgiato da quanto gli è accaduto dopo il trionfale Wimbledon 2013 da scendere in campo con il massimo rispetto degli avversari più o meno coetanei, quasi fossero tutti potenziali successori di Roger the King. “Sono approdato alle Next Gen Finals sapendo che quanti erano alla mia portata anni fa sono cresciuti fino a piazzarsi stabilmente tra i Top 100. Io invece sono sopra quota 300. Non per questo mi do per battuto in anticipo”. Il match con il fenomeno Denis Shapovalov, 18 anni compiuti in maggio, ATP 51, mancino come lui e dotato di un notevole rovescio a una mano, sembra avere poco da raccontare. Per tre quarti d’ora il canadese non cede il controllo del gioco grazie a un servizio efficace più per effetto e angolazione che per forza (comunque notevole: supera talvolta i 205 orari). Tatticamente programmato a insistere sul dritto dell’avversario, prende il largo nel primo set e si ripete nel secondo (4-1 4-1). Nel terzo Già, come lo chiama il coach Fabio Gorietti, prova a entrare in partita. Shapo è il giocatore delle Finals che ha il repertorio di soluzioni più vario – il serve and volley, la risposta lungolinea al servizio, lo sventaglio di dritto – che usa sapientemente. Eppure l’italiano, alla quinta partita in sei giorni, sale di tono e riesce a conquistare il suo primo break sul 2 pari. Non gli basta, è costretto al tie break, che risolve con un colpo ad effetto su servizio di Shapo.
Il quarto set è veloce ed equilibrato. La formula Shorter Set non invoglia a correre rischi, in questi casi. È di nuovo tie break, che Shapovalov si prende in rimonta. Non è Nadal, il canadese, né Quinzi è Djokovic, ma il tennis visto stasera vale il biglietto della Fiera. Ok, Federer è un’altra cosa. Com’è allora che Hyeon Chung, 21 anni, numero 54 del ranking ATP, che prende a pallate (4-0 4-1 4-3 in un’ora e otto minuti) il numero 37 Andrey Rublev, prima testa di serie delle Finals, sembra il trailer in esclusiva del film del grande tennis prossimo venturo? Ritroveremo il coreano l’anno prossimo tra i Top 20 e più su. Alto 187 centimetri come il russo, pesa 19 chili di più: 87 chili contro 68. La differenza ponderale si trasforma in potenza che va a pareggiare la velocità di esecuzione dell’avversario, tra le più impressionanti del circuito. Inoltre, Chung dispone di una regolarità frutto di una preparazione metodica che solo un orientale – o uno svizzero – può accettare di buon grado.
Certo, Federer è un’altra cosa, come anch’io penso. Tuttavia il gigantesco Karen Khachanov, ATP 45, che non raggiunge i due metri per un paio di miseri centimetri e gioca di conseguenza (servizio sempre oltre i duecento orari, servizi e rovesci che lasciano il segno sul grigio del sintetico che Diego Nepi Molineris ha coccolato nemmeno fosse la sala da pranzo di casa sua) e in un’ora annichilisce (4-1 4-3 4-2) Jared Donaldson, ATP 55, 188 centimetri, prova vivente delle difficoltà del tennis maschile americano, ci fa intuire che la selezione darwiniana non fa sconti a nessuno. Ossia, che solo in casi eccezionali come per l’argentino Diego Schwartzman, 170 centimetri, sarà concesso l’ingresso tra i Top 30 (…)