RICCARDO PIATTI: “STACCARE IL CORDONE OMBELICALE”
Secondo Riccardo Piatti, forse al giorno d’oggi il più importante professionista d’Italia quando si parla di tennis, stante la perdurante assenza di fenomeni di assoluto livello in campo, uno dei principali fattori ostativi alla nascita del tanto anelato campione sta nella tendenza dei giocatori nostri connazionali, a dire il vero piuttosto endemica e diffusa in molti ambiti lavorativi, a crogiolarsi in un ambiente protetto, dove è più facile sentirsi arrivati senza esserlo davvero, sotto nessun punto di vista. In un’intervista concessa a Repubblica, l’allenatore di Como ha tenuto a ribadire il concetto: “In Italia ci sono tanti buoni giocatori, anche se è facile credere al contrario. Ma ci sono anche tanti, forse troppi tornei di secondo livello, e i giovani sono portati a passare da uno all’altro pensando di costruire le basi della carriera tra le mura amiche. La cosa fondamentale, per quanto mi riguarda, è invece staccarsi il prima possibile dal cordone ombelicale. Il percorso diventa quantomai istruttivo iniziando a viaggiare, togliendosi le certezze da sotto i piedi. Raramente vedo tennisti italiani di prospettiva decidere di passare due mesi in Oriente, per dire, quando invece sarebbe importantissimo farlo“.
Secondo il buon Riccardo è fondamentale assecondare il giocatore in ogni suo ragionevole volere – “il tennis è sport individuale, e ognuno costruisce le proprie certezze secondo una logica esclusiva. Prendete Agassi: se un tennista è pelato ma crede di essere biondo con i capelli lunghi occorre dirgli “va bene, sei biondo con i capelli lunghi”, perché la costruzione dell’Io è importantissima” – ma il quid in grado di fare la differenza, una volta adocchiato un prospetto con qualità sopra la media e margini di miglioramento importanti, sta negli investimenti. Investimenti che il cinquantanovenne ex coach di Raonic non vede così “decisi” quando si tratta dei migliori compatrioti su piazza. “Il modello che mi sento di portare come esempio è quello di Sascha Zverev. Lui è un talento clamoroso, ma non si è addormentato sulle proprie qualità. Guardate suo padre e sua madre, che ancora oggi per lui sono dei riferimenti fondamentali: da un certo momento in avanti hanno scatenato una sorta di tennis-mercato. Prima hanno strappato a Murray il preparatore atletico (Jez Green, ndr); poi si sono accaparrati un grande fisioterapista come Hugo Gravil e hanno completato l’opera ingaggiando come “head coach” Juan Carlos Ferrero“.
Proprio ciò che dovrebbero fare tutti coloro che hanno tra le mani diciottenni di prospettive superiori. “Certo, sono impegni costosi e non tutti possono permetterseli, ma mi sembra che gli ultimi passi compiuti dalla Federazione vadano in quella direzione. Fermo restando che il rischio rimane enorme, perché nel passaggio dal mondo junior al professionismo possono intervenire decine di problematiche diverse“. Le buone prestazioni di Quinzi alle recenti NextGen Finals dimostrano che il materiale su cui lavorare c’è eccome, ma non bisogna abbassare la guardia “perché si tratta certo di una grande vetrina, ma l’obiettivo per il futuro deve’essere quello di portare qualcuno, magari a breve, a giocarsi le Finals vere“.
SASCHA ZVEREV E LA TENUTA MENTALE
A proposito di Zverev, ieri eliminato già al termine del round robin nel Masters della O2 Arena dopo la sconfitta con Jack Sock: il giovanissimo giocatore di Amburgo è parso particolarmente contrariato nella conferenza stampa post partita, ammettendo che i nervi hanno avuto la meglio nella disastrosa gestione del terzo set che lo ha condannato: “Sono uscito di testa, la pressione mi ha impedito di ragionare al meglio e ho perso. Ho giocato un grande secondo set (vinto per 6-1, ndr) ed ero avanti di un break nel secondo. In dieci minuti mi sono trovato sotto per 4-1 senza mettere una palla in campo, poi ho recuperato e ho servito per il cinque pari, ma ho giocato il game peggiore della stagione“. Sascha non crede di aver disputato complessivamente un brutto incontro, ma un pizzico di delusione resta: “Se guardo al tennis che ho giocato ieri non posso lamentarmi. Ripeto, la pressione mi ha reso poco lucido in alcuni momenti cruciali, ma se penso ai peggiori incontri di quest’anno non includo questo. Dovessi scegliere il più brutto in assoluto? Quello con Coric agli US Open, lì ho giocato veramente male“. Il che, naturalmente, non offusca quella che per Zverev è stata, azzardiamo, l’annata della consacrazione. “Ho vinto due Masters 1000 e in generale fino a New York è andato tutto bene, mentre il finale di stagione è stato tremendo: avessi giocato tutto l’anno come negli ultimi due mesi a quest’ora non sarei tra i primi 50 del mondo“.
Le prospettive per il maggior indiziato al dominio del tennis prossimo venturo restano comunque di primissimo piano: “Adesso ho solo bisogno di vacanza, ma da gennaio spero di poter riprendere il lavoro parzialmente abbandonato a fine agosto, e magari migliorare ancora“. Saremmo tutti davvero molto sorpresi, non dovesse farcela.