Diciassette anni fa, a Samarcanda in Uzbekistan, Mikhail Youzhny vinceva il suo primo titolo Challenger. Ne ha conquistati otto in carriera, l’ultimo a fine stagione completando un back to back con titoli a Ningbo e Ho-Chi Min. Solo Fabrice Santoro fece passare più tempo tra il primo titolo Challenger e l’ultimo: quasi vent’anni, tra Telford ’90 e Johannesburg ’09 (fonte Luca Brancher). Misha è tornato a girovagare per i tornei minori, dopo una quindicina di stagioni ad alti, se non altissimi livelli: dieci titoli ATP, tredici milioni di dollari vinti e un best ranking di numero 8. E non se ne lamenta, anzi, il suo amore per il gioco non è affatto calato: ce lo ha raccontato in esclusiva a Parigi, durante il Roland Garros: “Voglio continuare a giocare, è questo il succo. Non è cambiato il mio approccio al gioco in sé, sono stati vari particolari a incidere sulla mia discesa in classifica. Ad un certo punto di una carriera il ranking può essere un fattore pesante. E le alternative sono due: smettere, o lottare se il tennis è ancora uno stimolo, una priorità. Ho ancora voglia, e sono disposto a fare il necessario per continuare a giocare: Challenger, qualificazioni, non importa”.
L’intervista si svolge nella piccolissima sala interviste numero 4, una stanza spartana con sedie sparse e un tavolino. Youzhny ha appena perso in cinque set al primo turno, sprecano match point contro il brasiliano Rogerio Dutra Silva. Lui che nel palmarès conta anche due semifinali Major, colte entrambe agli US Open, nel 2006 e 2010. E che pochi mesi fa a New York costringeva Federer al quinto set: “Difficile parlarne dopo una sconfitta del genere, magari non sono dell’umore giusto. Ma è sempre bello giocare in palcoscenici di questo spessore. Dopo tutti questi anni sento ancora emozioni, provo ancora sensazioni e brividi anche se su campi secondari. È la mia vita, e sono contento. Le sconfitte fanno parte del gioco”. Dagli stadi più grandi del mondo ai campi afosi del sud est asiatico, dove all’inizio dello scorso anno aveva trascorso tre settimane e inanellato altrettanti Challenger vinti. Portando in giro un tennis d’antan, pungente, vario, come ormai non si vede più: il rovescio a una mano evoca gesti bianchi, sebbene non sia poi così puro, con quel movimento che inizia bimane e poi si frammenta. Unico. “Bisogna adattarsi per sopravvivere nel circuito, ovviamente. Quando ho iniziato io, vent’anni fa, il tennis non era certo così. Ogni quattro o cinque anni ci sono giovani che portano qualche novità, e per provare a essere al top bisogna affrontare questi nuovi input”. Il nuovo power tennis mal si coniuga con il suo mix di talento e tagli, il che rende i suoi incontri ancor più particolari.
A trentacinque anni Mikhail è uno dei vecchi leoni del tour. Ne ha viste di ogni, soffrendo e togliendosi soddisfazioni. Una delle più importanti, senza dubbio a suo dire, fu la Coppa Davis del 2002, strappata da giovanissimo alla Francia con l’ultimo singolare ormai leggendario, in cui rimontò due set di svantaggio a Paul Henri Mathieu nel catino di Parigi Bercy. Curiosamente, Mathieu diceva addio al tennis poche ore prima dell’intervista: “Gli ho chiesto se fosse vero, avevo sentito che qualcuno ne parlava in spogliatoio. È curioso pensare di essere uno degli anziani adesso: io onestamente sto bene. È vero che si vedono tante facce nuove, ma si incontrano anche tanti ex avversari che adesso entrano in spogliatoio come coach, o inviati televisivi. E questo un po’ mi inorgoglisce, essere ancora a combattere mentre altri hanno smesso. Sento di poter ancora giocare a buon livello”. Il taglio di capelli militare e gli occhi vitrei, che quasi spaventano quando Misha parla a voce bassa ma chiara: non a caso il suo saluto al pubblico è con le dita tese alla tempia, come un soldato, e il suo soprannome tra gli appassionati è “Colonel”.
Figlio di Mikhail Sr, ex soldato dell’Armata Sovietica venuto a mancare pochi anni fa e suo primo sostenitore: Misha ha dato ogni goccia di sé al tennis, fin dai primi giorni. Insieme a suo fratello Andrei era costretto a due ore di viaggio al giorno, tra metropolitana e autobus, per raggiungere lo Spartak Club, dove si allenava con una racchetta e una sacca di palline raccolte al circolo, di cui era membro Andrei Chesnokov. Fu lì che incontrò Boris Sobkin, che lo segue da quando aveva dieci anni. “Un padre per me”, si limita a dire Mikhail alzando le spalle, come se non ci fosse bisogno di aggiungere altro. Un’infanzia sofferta, che lo ha scafato e reso maturo e consapevole: “C’è qualcosa che cambierei nella mia carriera, come capita a chiunque altro. Cambierei qualche piccola cosa nella programmazione, soprattutto all’inizio. Ero ovviamente inesperto, ancora non avevo idea di cosa potesse essere meglio per me, in generale. È chiaro che sono particolari che si acquisiscono con l’esperienza, adesso anche il mio team è più consapevole. A diciotto anni non ti senti come a trenta. Credo sia comunque troppo presto per parlare di rimpianti: non ho ancora smesso, e solo allora sarà il momento adatto. So di certo che da quando ho iniziato, non è passato un giorno senza che dessi il massimo”.
Una transizione da uomo da battere a mina vagante, che adesso gli permette di assaporare sensazioni inimmaginabili fino a qualche anno fa: “Da giovane vediamo solo campi da tennis e alberghi, tutto il giorno, tutti i giorni. Crescendo, ho cercato di girare di più, di vivere di più la vita e i viaggi. E paradossalmente, anche quando sei costretto a posti meno glamour perché devi recuperare punti, puoi visitare posti e vedere cose a cui prima non facevi caso. E soprattutto, solo quando perdi l’abitudine ai grandi palcoscenici, puoi apprezzarli quando ci torni. A venticinque anni per me i tornei dello Slam erano la normalità, quasi non me ne accorgevo. Adesso hanno un gusto particolare, quasi nuovo, un ricordo e un sapore diverso”. Un pensiero del genere sembra quasi naturale accostamento ai suoi studi: Youzhny si è infatti laureato in Filosofia all’Università di Mosca, nel 2011. Nel 2008 il matrimonio con Yulia, che lo ha reso padre di Maxim e Igor. Il futuro sarà incentrato sulla famiglia, sul tennis? “Non posso rispondere. Ho sogni e obiettivi, ma non posso parlarne alla stampa. Ho dei progetti, ma è la mia vita, e preferisco tenerla per me”. Onore a te, soldato Misha.