Di seguito qualche parola del nostro Direttore sulla figura di Richard Evans, leggendaria penna inglese e acuto osservatore del piccolo mondo della racchetta, così come della grande dimensione della Storia con la “s” maiuscola.
Richard Evans è un uomo solo al comando, nel computo degli Slam. È molto probabile che, come è accaduto per Nicola Pietrangeli con i suoi 164 incontri di Davis (record imbattibile dacché, 1982, è diventato impossibile giocare più di 4 incontri l’anno) anche il suo diventi un record insuperabile. Non so se li abbia contati con la precisione di un Rino Tommasi, ma Richard garantisce di aver raggiunto quota 196 Slam! Sarà dura raggiungerlo, anche perché lui, che lavora per Fox e fa radio in diretta per l’ITF nei tornei dello Slam, non ha nessuna intenzione di fermarsi. Io sono a quota 147. Quasi 50 tornei indietro: dovrei… battermi con Ubitennis per 11 anni in più dopo il ritiro di Richard per motivi anagrafici! Sventolo già adesso bandiera bianca!
Richard ha 78 anni, esattamente 10 più di me, ma come potete constatare da questa video-intervista, davvero non li dimostra. Nato in Francia nel ’39, ma da genitori inglesi, è un grande, un grandissimo giornalista che ha scritto per le principali testate britanniche, Times, Telegraph, e ha lavorato per vari network, fra i quali la BBC in tv e in radio. Ha certamente inciso di più nel mondo del tennis con la forza delle sue opinioni, anche se non ha forse il talento di scrittore di un Clerici né la credibilità statistica di un Tommasi. Ma come Tommasi – e con il vantaggio di poterle esprimere in inglese, e quindi di essere inteso da tutto il mondo del tennis – ha la forza delle opinioni e la profonda conoscenza – anche storica – dello sport di cui scrive. E di tanti altri sport. La conoscenza approfondita di vari sport, una vera cultura, e quella massima nel tennis, consente a chi abbia una grande personalità come la sua di esprimere pareri intelligenti e pesanti. Amplio il discorso, anche se c’entra poco. A mio sommesso avviso in Italia oggi, dopo un’epoca in cui forse i giornalisti italiani di tennis erano i migliori del mondo (perché avevano avuto esperienze giornalistiche di vario livello – a contatto con i Brera, i Biagi, i Montanelli, i Piazzesi, i Bartoli – e avevano anche giocato a tennis a discreti livelli agonistici… mentre nessuno degli stranieri lo aveva fatto, anche se c’erano con la penna talenti straordinari come Rex Bellamy, John Roberts, Sue Mott o supercompetenti come Richard Evans), grandi qualità giornalistiche di statura internazionale, in tv come sulla carta stampata, non mi pare che si intravedano, almeno a quei livelli.
Ho conosciuto Richard all’inizio degli anni Settanta. Siamo subito diventati grandi amici. In giro per il mondo, negli Slam, ma anche in mete diverse. Quando dovevo scegliere con chi uscire alla sera fra i colleghi, se non c’erano Rino o Gianni, uscivo con lui. Perché aveva sempre una conversazione interessante da offrire, fascinosa (non solo per le belle donne: ne ha avute tante, oltre a due mogli, con la seconda che gli ha dato un figlio, Ashley, cui è legatissimo). Lui “Roving Eye” – l’occhio sempre in movimento – che era anche il titolo della sua prima rubrica, pubblicata da World Tennis. Ne ha condotta una anche per la rivista francese Tennis Magazine, la migliore mai andata in commercio. La rubrica si chiama Au tour de monde.
È stato più volte anche mio ospite a Firenze, e mi poteva parlare delle sue corrispondenze dalla Cambogia e dal Vietnam, da Memphis subito dopo l’uccisione di Martin Luther King, dagli Stati Uniti quando seguiva le campagne di Robert Kennedy prima che venisse assassinato, le dimostrazioni contro il Governo messicano del ’68 che si conclusero con un massacro, il suo esordio a Wimbledon 1957 quando, appena diciottenne e con zero conoscenze di tennis (era ed è tifoso dell’Arsenal) fu spedito sulle tracce di Althea Gibson, la prima tennista di colore a vincere i Championships (che gli dette clamorose esclusive, facendosi accompagnare da lui perfino al tradizionale ballo dei vincitori), esattamente come gli sarebbe accaduto anni dopo quando andò al seguito di Arthur Ashe in Sud Africa per la lotta contro la politica dell’apartheid dell’epoca pre-Mandela (con il quale sarebbe entrato in contatto nel 1990).
Con Richard, con il quale abbiamo potuto parlare anche delle nostre esperienze all’interno dei nostri giornali (nel mio piccolo ho lavorato e scritto per tutte le pagine de La Nazione, cronaca, interni esteri, oltre che sport) abbiamo diviso momenti bellissimi anche nelle isole Fiji al tennis-ranch di John Newcombe, all’epoca in cui lui aveva un flirt con Carol Thatcher, la figlia della Lady di Ferro che scrisse anche un libro sulla coppia John-Lloyd-Chris Evert. Io stesso mi ritrovai ad un party dato da Carol per l’inaugurazione del suo appartamento, con Margaret Thatcher che arrivò all’improvviso con il marito e, prima di andare in cucina con noi a portare i piatti sporchi, raccontò storie incredibili di lei con Kohl e i politici italiani.
Richard ha scritto libri e biografie di Marty Riessen, John McEnroe, Ilie Nastase, e la recente autobiografia “The roving eye”. È stato quel che è oggi Nicola Arzani, Senior ATP Media&Marketing p.r., – e anche direttore dell’ufficio europeo ATP quando la base era Parigi – ed è stato anche chairman dell’International Tennis Writers Association che fu emanazione dell’associazione giornalisti europei di tennis europei che avevamo fondato insieme. Vi basterà seguire quest’intervista per capire che grande personaggio sia Richard Evans.
Ubaldo Scanagatta
L’INTERVISTA
Come hai iniziato a seguire il tennis e perché?
Ho iniziato la carriera giornalistica molto presto, a diciassette anni dopo la leva militare. Tre giorni prima di Wimbledon in redazione erano un po’ nel panico perché dovevano scrivere un pezzo su Althea Gibson, ma non si trovava nessuno che potesse farlo. Così il direttore, vedendomi entrare nell’ufficio, disse: “Facciamolo fare a questo giovanotto”. Non aveva idea di chi fossi. Così mi sono presentato ad Althea Gibson, che è stata davvero incantevole, e due giorni dopo ero seduto sul centrale di Wimbledon a prendere appunti. Così sono diventato corrispondente dell’Evening Standard per il tennis e poco dopo sono partito per gli Stati Uniti.
Hai collaborato con moltissimi giornali, puoi menzionarne qualcuno?
Quando ero negli stati uniti, sono diventato corrispondente anche per l’Evening News, un altro giornale di Londra, per tutto e non solo per lo sport. Ho parlato dell’assasinio di Martin Luther King, delle vicende di Robert Kennedy e del Watergate, perchè ero l’unico corrispondente dal Nord America.
Eri molto affascinato da Robert Kennedy.
Sì, l’ho trovato il politico più interessante che abbia mai seguito. Vivremmo in un mondo diverso ora se fosse diventato presidente al posto di Nixon. Erano come il bianco e il nero, due personalità completamente diverse. L’unica cosa da dire su Nixon è che non è peggiore di Trump.
A proposito dei libri che hai scritto, ce n’è uno anche su John mcEnroe e uno su Ilie Nastase. Qual è il giocatore che ti ha affascinato di più e perché?
Scelgo John McEnroe. Era folle e come tennista era un genio. Nessuno ha più giocato come lui.
Nemmeno Roger Federer?
Roger è diverso, perché combina tutte le sue abilità in modo da poter vincere. McEnroe non lo faceva. Ha vinto sette titoli Slam ed è ridicolo. Si è un po’ buttato via. Ha cominciato a provare a vincere gli Australian Open solo alla fine della sua carriera. Diceva di non poter giocare bene sull’erba di Kooyong perché diceva che bisognava scalare una collina per approcciarsi alla rete. Effettivamente c’era un pochino di pendenza nei pressi della rete, ma per lui era una collina! Ha sicuramente vinto molto meno di quanto avrebbe potuto, perché era un genio assoluto con la racchetta in mano.
Sei contento di dedicare il tuo tempo a seguire il tennis o ritieni uno spreco di intelligenza scrivere di persone che colpiscono una pallina? Te lo chiedo perché spesso mi viene detta la stessa cosa.
Ho passato molto tempo a parlare di politica quando ero corrispondente dall’estero e ho iniziato a notare che moltissimi politici mentono e non dicono mai la verità. Gli atleti invece, per la maggior parte, dicono sempre la verità perché non puoi dire di aver giocato bene se hai perso 6-0 6-1, è sotto gli occhi di tutti. Quindi preferisco avere a che fare con l’onestà dei giocatori che con i politici.
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