Borg-McEnroe:
Janus Metz Pedersen, 2017, Borg McEnroe, film, 100 min., Lucky red, 2017
La sfida di Janus Metz Pedersen è da apprezzare. Fare un film su Borg McEnroe vuol dire mettere le mani sulle pietre focaie che hanno incendiato il gioco del tennis proiettandolo in un orizzonte che esce dallo sport ed entra nel costume, nell’immaginario collettivo e nel dna di ogni epica che si rispetti. Da Achille ed Ettore, passando per Magic Jonson e Larry Bird, fino ad arrivare a Federer e Nadal. È per roba come questa che si prende da bambini la racchetta in mano trasformando un cortile o una stanzetta nel centrale di Wimbledon. Senza quei campioni speciali che ci accendono una certa frequenza nella testa, la nostra vita sarebbe poco più di quella di scimmie vestite e pettinate che mangiano ogni giorno, dormono e poi muoiono. Noi accadiamo dentro le storie. È questo il segreto intimo dello sport, della narrazione e la sfida implicita del film.
Ma BorgMcEnroe, da leggere come una cosa sola, non è solo questo. Il tiebreak di 21 minuti nel quarto set è stata la testa di ariete che ha ipnotizzato davanti agli schermi il mondo intero, rompendo la membrana che separava un perimetro verde circondato da snob, da una società carnivora che si nutre di spettacolo come quelle antiche si nutrivano di storie. Niente da quel giorno sarebbe stato più come prima. Se il dualismo Federer-Nadal è il primo dell’era social, quello tra Borg e Mc è stato il primo dentro il grande protagonista del 900, sua maestà la televisione. Lo stesso amplificatore atomico che ha trasformato quattro ragazzi di Liverpool in una cosa più famosa di Gesù Cristo. Il tiebreak rappresenta nel film l’appuntamento fatale col destino che incombe dal primo minuto. Qualcosa dal quale non si può sfuggire. Una sliding doors che avrebbe cambiato per sempre il tennis e la vita di quelli che alla fine rimangono due ragazzi costretti a confrontarsi, dal giorno dopo, con qualcosa di molto più grosso di loro. Qualcosa che li trasformerà in amici, in leggende ma che li distruggerà. Soprattutto Borg. Il vero protagonista del film e il monolite nero del tennis. Non credo che ci sarà mai più qualcosa di così magnetico nel tennis e nello sport in generale. Un buco nero che attrae ogni cosa e che non restituisce nulla se non il suo insondabile mistero.
Per quanto il film sia fatto bene, e l’attore che interpreta Borg sia stato fantastico, non sono certo le armi di un film agiografico, ben documentato e in fin dei conti troppo rispettoso a potere indagare la psiche e i sentimenti del monolite svedese. Per quanto fatte davvero bene le scene delle partite sono l’anello debole del film. Funzionano visivamente, funzionano drammaturgicamente (danno il ritmo) ma sono tempo perso per l’approfondimento di un mondo che, davanti all’anestetizzante retorica del superprofessionismo contemporaneo, oggi possiamo solo invidiare per l’ingenuità e la vitalità. Un mondo in cui gli uomini e i tennisti coincidevano. Un mondo in cui potevamo identificarci e specchiarci. Un mondo in cui, davanti alla vitalità anfetaminica di Gerulaitis, meravigliosamente rappresentata da Robert Emms, miglior attore non protagonista, Safin, Gulbis e Kyrgios sembrano delle educande col batticuore e le gote rosse. Se volete una pietra di paragone, la differenza tra BorgMcEnroe e FederNadal è la stessa che intercorre tra Maradona e Messi. Il secondo è semplicemente un supercampione, l’essere umano che gioca meglio al calcio, un dono avuto dal cielo, l’altro è nato in una favelas, ha inseguito i sogni di un bambino, è “megghiu ì Pelé” e solo a scrivere il suo nome mi diventano gli occhi umidi mentre vengo magicamente proiettato al San Paolo o a Città del Messico ed esulto assieme a migliaia di sconosciuti perché l’ingiustizia del mondo, almeno per un momento, viene capovolta.
Se comunque Borg può essere soddisfatto del film (immagino abbia guardato fisso per dodici secondi il regista, a cui saranno sembrati due anni, e abbia annuito per ripiombare l’istante successivo nel suo imperscrutabile mondo interiore) a John il film non è piaciuto. E John ha ragione. L’americano viene usato come contrappunto narrativo e nonostante l’evoluzione psicologica del personaggio, si intercetta in maniera macchiettistica solo la superficie del campione e non la sua carica dirompente che fa dire a Picasso Petzschner, il più grande tra gli scrittori sconosciuti di tennis [1], che vale più una volée di Mc sessantenne che la somma degli Slam di Federer e Nadal. Per il tifoso-ragioniere col pallottoliere in mano è un’eresia, per chi si ricorda i turbamenti prodotti da uno sguardo della compagna delle medie no. Quello sguardo (che vale più della somma degli sguardi di diciannove top model) è l’equivalente della volée eretica di Mc o della svolta elettrica di Bob Dylan o, se volete, dei silenzi magnetici di Borg. Roba simbolica che in un istante è capace di cambiare il mondo intero e tutta la nostra vita.
Per quanto ben fatto il Film non scioglie questo mistero, anche se si esce dalla sala col magone. Per chi, dopo il magone, volesse approfondire la questione, consiglio vivamente almeno tre libri presenti nella Piccola Bibioteca di Ubitennis: l’ottimo “Borg vs McEnroe” di M. Folley [2], dal quale sono tratti moltissime informazioni e alcuni dei dialoghi del film, la completa panoramica sulla Swedish revolution di Holm e Roosvald [3] e soprattutto “Traslocando”, l’autobiografia di Loredana Berté [4], tra le tante cose la seconda moglie del monolite svedese. Nella disarmante sincerità di Loredana emerge anche il dark side del Monolite. Un ragazzo semplice, bello come un dio, costretto a confrontarsi con le lusinghe di un mondo troppo più grande di lui. Paradossalmente le paranoie, le dipendenze, le depressioni raccontate, non spiegano affatto il mistero biondo, ma se possibile lo amplificano ulteriormente restituendoci la brutalità del mondo in cui viviamo.
[1] Vedi qui
[2] Vedi qui
[3] Vedi qui
[4] Vedi qui
Leggi tutte le recensioni della Piccola Biblioteca di Ubitennis