Immaginate che Lionel Messi e Cristiano Ronaldo si mettano d’accordo per organizzare un’enorme partita amichevole nel bel mezzo della stagione, nella quale si affrontano i migliori undici giocatori sudamericani e quelli europei. E, perché no, immaginate che vogliano intitolare la sfida a Pelé e che chiamino come allenatori delle due squadre Maradona e Van Basten. Sarebbe un evento di portata globale, con i biglietti per lo stadio esauriti in pochi minuti e le televisioni a fare a gara a suon di milioni di euro per i diritti tv. Ma provate ad immaginare anche le reazioni indispettite delle principali leghe continentali, che vedrebbero i loro campionati privati delle loro stelle più brillanti, o dei tifosi di Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, Chelsea, Paris Saint Germain, Juventus e altri top club europei costretti per un fine settimana a non poter ammirare i loro idoli. Ecco forse per queste ragioni un tale evento non sarebbe possibile. E forse proprio per questo non verrà mai nemmeno in mente di metterlo in piedi né alla pulce né a CR7 e nemmeno ai loro entourage avidi di denaro.
Immaginate anche che Messi nel 2022, a 35 anni suonati e ancora a secco di mondiali con la sua Argentina dopo l’ennesima delusione in terra russa, decida che il deserto del Qatar sarà la sua ultima spiaggia. Immaginate anche che, al fine di risparmiare le ormai limitate energie per il presumibile ultimo giro di valzer nella più prestigiosa competizione per nazionali del mondo, il fenomeno di Rosario in un’intervista ad un giornalista spagnolo ipotizzi di non giocare tutta la seconda parte di stagione con il Barcellona, club sotto il quale è ancora sotto contratto. I dirigenti catalani, alquanto indignati, non esiterebbero a fargli rispettare i suoi oneri contrattuali, magari chiamando in causa anche una sorta di riconoscenza nei confronti di tutte le persone che all’interno e all’esterno della società hanno contribuito a renderlo grande. Si prospetterebbe per Messi una dura battaglia legale dalla quale uscirebbe probabilmente sconfitto. E per questo non è un’ipotesi che potrebbe mai prendere in considerazione.
Questi due episodi, all’apparenza inverosimili, dovrebbero, con le dovute differenze riguardanti il tipo di sport e la connessa natura dei rapporti economici tra datore di lavoro e dipendente, ricordare qualcosa agli appassionati di tennis. In questa stagione, Roger Federer, il recordman di tutti i tempi per numero di Slam in singolare e permanenza in vetta alla classifica mondiale (tanto per non entrare nell’inutile dibattito sul GOAT) ha infatti infranto anche la barriera della fantascienza, dimostrando ormai di sentirsi (e di essere nei fatti) al di sopra del mondo del tennis, delle sue istituzioni e di quantomeno una parte dei suoi tifosi.
In primo luogo organizzando la Laver Cup. Questo evento, a suon di cachet con moltissimi zeri, ha portato a Praga, tra il 22 e il 24 settembre, i dodici migliori giocatori del mondo, dividendoli in due squadre, Europa e resto del mondo. Il circuito maggiore si è sostanzialmente visto così privato per alcuni giorni dei suoi dodici (quattordici se contiamo le riserve) migliori talenti in attività. È vero che in quella settimana erano in programma i tornei 250 di San Pietroburgo e Metz, ai quali probabilmente molti dei giocatori impegnati nella capitale ceca non avrebbero partecipato comunque. Ed è vero anche che probabilmente questa collocazione non è stata casuale ma frutto di una trattativa tra le istituzioni globali del tennis, ATP e ITF nel caso specifico, e l’entourage di Federer, nella persona del potente manager Tony Godsick. Ma la portata dell’evento è stata notevole e la sua perfetta riuscita, testimoniata in maniera unanime da giornalisti e addetti ai lavori, l’ha reso uno dei momenti più alti della stagione maschile. Questo grazie soprattutto alla prima volta degli arci-rivali Nadal e Federer da compagni di squadra, al carisma di Bjorn Borg e John McEnroe in panchina e all’impegno di tutte le star in campo. In particolare, il paragone con una Coppa Davis che, nonostante i continui tentativi di riforma, continua a perdere appeal e viene frequentemente snobbata dai top players, è stato evidente. Insomma Roger 1-ITF e gli sfortunati organizzatori e spettatori di San Pietroburgo e Metz che magari su un Kyrgios qualunque ci potevano pure sperare 0. Cambio campo.
In secondo luogo, il 36enne fenomeno di Basilea dall’aria bonaria ha rimarcato la sua presunta superiorità rispetto al pianeta tennis saltando inopinatamente tutta la stagione su terra rossa europea. Nel caso specifico cerchiamo di ricostruire in maniera consequenziale gli eventi per vederli da un’altra prospettiva rispetto alla narrativa del “ha fatto bene per rimanere sano e vincere Wimbledon per l’ottava volta-tanto se le regole glielo permettono è giusto così”. Il 2 aprile, dopo aver domato Nadal nella finale di Miami con una performance sfavillante, Federer annuncia che l’unico torneo che disputerà sul mattone tritato quest’anno sarà il Roland Garros. Fino a quel momento il campione rossocrociato aveva disputato 21 partite dall’inizio della stagione, con un bilancio di 20 vittorie e 1 sconfitta. Solamente in cinque occasioni era rimasto in campo più di due ore. Insomma era in forma, stava dominando e aveva giocato sì tante partite ma per la maggior parte brevi. Tuttavia, sceglie di non presentarsi né a Montecarlo né a Madrid e nemmeno Roma per la rabbia degli organizzatori di questi tornei (tranne del nostro Binaghi che sornionamente dichiara di avere sempre fatto il tifo per il suo rivale iberico) e di chi aveva pagato il biglietto sperando di vederlo. Vale forse la pena ricordare che in questi tornei Federer ha raccolto solo due successi in carriera (entrambi a Madrid) e nel suo sfortunato 2016 aveva ottenuto la miseria di tre vittorie tra il principato e la capitale. Il 15 aprile il re del tennis comincia a mettere in dubbio la sua presenza a Bois de Boulogne affermando di non voler “giocare tanto per giocare”. Il 15 maggio, a distanza ormai di un mese e mezzo dalla sua ultima apparizione su un campo da tennis, Federer scioglie ogni riserva e annuncia su Twitter che “giocare il Roland Garros non sarebbe la cosa migliore per il suo tennis e per la preparazione al resto della stagione”. Pure a Parigi tifosi e addetti ai lavori non la devono aver presa troppo bene. Insomma, nonostante sia in ottima condizione fisica, il tennista più vincente in attività non prende parte ad un Major e agli eventi propedeutici, dove curiosamente ha sempre vinto pochino. Roger 2 – organizzatori dei tornei menzionati, appassionati che hanno comprato biglietti e tutti i tennisti professionisti che se stanno bene sono obbligati a giocare quei tornei o che magari lo vedono come un privilegio 0. Game, set and match.
A questo punto, dovrebbe essere lapalissiano che ormai Federer si senta al di sopra del mondo del tennis in termini di istituzioni, colleghi e fans. La domanda che sorge spontanea è se sia moralmente accettabile che un tennista elevi sé stesso oltre il tennis stesso. La risposta è semplice e diretta: no. Ogni sport ha una storia che precede qualunque suo atleta e una che lo segue. Può darsi che uno sportivo cambi la storia del proprio sport, che ne alteri il modo di giocarlo, la struttura o la percezione collettiva. Ma qualcosa era successo prima e qualcosa succederà dopo. E ci potrebbe essere qualcun altro che avrà un impatto persino più dirompente di lui. Nel caso specifico, la ventennale carriera di Federer è un’inezia se raffrontata ai quasi 130 anni di storia del tennis moderno e tutti quelli che probabilmente dovranno ancora venire. Inoltre, pur avendone lui riscritto la storia, il testimone passerà ineluttabilmente ad altri che potrebbero vincere più Wimbledon, rimanere più settimane al numero uno, avere una carriera più longeva. Senza contare il fatto che è l’esistenza di una disciplina stessa a rendere l’atleta ciò che è. Cosa sarebbe diventato Messi senza il calcio, LeBron James senza il basket o Michael Phelps senza il nuoto? E cosa sarebbe diventato Federer senza il tennis? Un anonimo bancario della filiale della Credit Suisse di Basilea?
Tuttavia, la domanda in questa maniera è posta in termini eccessivamente astratti e decontestualizzati. Ci dobbiamo chiedere invece se è giusto che oggi, in questo preciso momento, la comunità del tennis sia piegata alle bizzose esigenze di Roger Federer. E qua l’immaginario attore “tennis” viene sostituito da persone in carne ed ossa come dirigenti delle principali istituzioni internazionali, organizzatori di tornei, altri giocatori nel circuito e appassionati di tutto il mondo che comprano biglietti per gli incontri, abbonamenti televisivi e gadget vari ed eventuali. Tale comunità sembra per lo più accettare in maniera connivente la dittatura federeriana sul mondo del tennis. In questo 2017, infatti praticamente nessuna voce si è levata contro i comportamenti dispotici del maestro elvetico. A memoria si possono segnalare giusto un paio di dissidenti, forse non a caso entrambi francesi, popolo rivoluzionario per eccellenza. Il primo è Marc Gicquel, ex n.37 del ranking ATP, che con un tweet sul suo profilo ha criticato le rinunce di Shapovalov al Challenger di Orleans e di Berdych al ATP 250 di Shenzhen, eventi della stagione regolare con punti ATP in palio, in favore della Laver Cup. Il secondo è Guy Forget, due volte vincitore della Davis e oggi organizzatore del Masters 1000 di Bercy, che si è detto deluso dalla scelta di Federer di rinunciare all’ultimo istante al torneo, lasciando spiazzati i suoi tifosi ma anche altri giocatori in corsa per le ATP Finals.
Del resto la comunità tennistica è rimasta assolutamente silente, abbacinata dalla luce emanata in campo dal suo despota e dagli enormi introiti che essa riesce ancora a generare. Per questa ragione è moralmente accettabile che Federer si senta al di sopra del tennis. Coloro che stanno al di sotto sono perfettamente consapevoli della situazione, di buon grado la subiscono e conseguentemente si augurano che vada avanti più a lungo possibile. Lunga vita dunque a re Roger e chi se ne importa se il tennis, al momento, è cosa sua.