“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la sua” (U. Eco).
Un giovane professore arrivato a Bologna nel 1975 per insegnare semiotica al neonato DAMS, tra le sue tante cose interessanti, ebbe a dire anche questa. Umberto Eco, nato non bolognese, sarebbe divenuto uno dei simboli della Bologna degli anni ’70, capitale dei movimenti giovanili e dei suoi modi di rappresentare il presente e prefigurare il futuro. DAMS e non solo. Un coacervo di idee in movimento fiorite in contemporanea, la Bologna di quegli anni. Zanardi non era solo il nome di una strada, Piazza Grande non solo il paradigma di una piazza, né Roversi solo l’introvabile Tazìo tra le figurine dei calciatori di un album mai finito. Bifo era il personaggio di un paese delle meraviglie che era in una radio che della bambina che lì si perse, aveva il nome. Si vendeva bene Bologna in quegli anni tra un Sartre e un Bodelaire, un Sarti e un Dalla. La Bologna gravida della paranoica punkEmilia, ponte tra l’Italia e la Mitteleuropa. Ma non solo di arte e cultura, musica e libri si cibano i giochi della Rivoluzione. Pensare, agire, creare. Lavorare stanca e il modo migliore è farlo con lentezza eppure a Borgo Panigale, in via Cavalieri Ducati han sempre costruito moto velocissime.
Il fuoco non covava soltanto nelle strade del centro, ma anche negli angoli più tranquilli della città. Anche di storie di sport vivono i luoghi. Nei campi da tennis, Bologna, come tutti le città, provava a scovare e donare al Paese il nuovo Adriano Panatta. Due ragazzini nati a pochi anni di differenza in particolare destavano le attenzioni. Uno magrolino, esile, ottima manualità, eccessivo negli atteggiamenti e nell’alternanza degli stati d’animo. L’altro, tranquillo ragazzone, alto e allampanato, rigido di busto e di gambe, diritto killer e fantastico colpitore al punto da far passare in secondo piano un talento affatto banale. Paolo Canè ed Omar Camporese.
Il tocco del virtuoso aveva il primo, ma cilindrata bassa e andava specializzandosi sui campi in rosso, handicap tipico delle italiche vicende tennistiche. Eppure la miglior partita della carriera l’avrebbe fatta sull’erba di Wimbledon dove per un filo non batteva Lendl. Non è sempre del vicino l’erba più verde e un campo veloce sa essere amico migliore di uno lento per chi propone un tennis di qualità come il Paolino delle giornate in cui scendeva dal letto dal lato giusto. Il secondo mobilità pari allo zero, nessuna voglia di scambiare, servizio-diritto lo schema preferito. Non che non sapesse fare altro, anzi, lo faceva in maniera sublime, ma aveva la cilindrata dei campioni lui, meglio non stancarsi e perder tempo. Crescendo e maturando avrebbero amplificato queste caratteristiche.
Di Canè si ricordano gli psyco matches, le lunghe corse e rincorse, le sofferenze, le invenzioni, i crolli, i furori, le frustrazioni, gli sbalzi umorali, al punto che il sommo Clerici lo battezzò ‘”neuroCanè”, appellativo, che, a torto, ebbe meno successo di “turbo rovescio” conferitogli dal re dei cronisti sportivi pop, Giampiero Galeazzi. Di Camporese si ricorda di come, quando non aveva fisico incerottato, fosse capace di ridurre qualsiasi avversario al ruolo di impotente sparring. I due avrebbero dato vita ad una splendida idea di squadra monca di Coppa Davis, spesso infortunati, forte sulla terra uno e sul veloce ed incontenibile indoor l’altro, anche ottimo doppista in coppia col fido Diego Nargiso.
Paolo Canè ebbe come best ranking il numero 24 e tre vittorie in tornei non di prima fascia, sull’amata terra. Memorabile la sua vittoria in Davis a Cagliari su un Wilander ancora numero 1 anche se già nella sua parabola discendente. Un fisico non all’altezza, un tennis tutto sommato filante ma leggero, un servizio poco incisivo e una testa ballerina non lavorarono purtroppo nella stessa direzione della sua mano sensibile, facendone un giocatore ostico da incontrare nelle giornate buone specie sul rosso e in Davis dove si trasformava in una sorta di indemoniato. “Paoli’, daje che mo se ritira“, urlatogli dagli spalti del Foro Italico nel momento in cui Jarryd, suo avversario di un match mai nato, si apprestava a servire sul 6-0 5-0; un paio di tuffi sul rosso di Cagliari in Davis e sull’erba di Wimbledon, una star della canzone come compagna. Fenomenologia di Paolo Canè in tre punti.
La palla colpita da Camporese, suonava Wagner. La ascoltò per ore quella musica Boris Becker in un match infinito il 19 gennaio 1991. Australian Open, terzo turno. Quinta ora di gioco. Boris Becker è 40/0 e serve il primo dei tre match point sull’11-10 del quinto set. Partita finita. Almeno così dovrebbe essere. Primo set point annullato da un paio di comodini lanciati dall’altro lato del campo da Omar.
40 /15
Boris Becker serve il secondo match point. Sassata di Omar di risposta e volèe comunque non difficilissima di Becker in rete.
40/30
Terzo match point. Boris batte sul rovescio di Omar che si gira sul diritto e spara una bordata lungo linea. Parità.
40/40
Risposta da fantascienza di Omar, rovescio bloccato dal centro ad uscire con avversario che resta immobile e siamo sulla palla dell’11 pari.
40/A
Serve&volley di Becker, risposta vincente di rovescio lungo linea da cineteca di Omar, Becker infilato e 11 pari.
Camporese arriverà a due punti dal match che finirà con la vittoria del pel di carota tedesco 14-12 al quinto set in uno dei match più lunghi della storia degli Slam. Al momento di stringersi la mano, Boris alza il braccio di Omar assieme al suo per una comune contemporanea standing ovation. Lasciano il campo entrambi da vincitori, anche se solo uno è ad aver passato il turno. Becker gli sussurra: “Sei un giocatore incredibile“.
Camporese per non smentire Becker contro cui ripeterà poche settimane dopo in Davis pari pari la stessa maratona dell’Australia, tra un infortunio e l’altro suonò quelle sinfoniche cavalcate a diversi top ten. Edberg, Moya, Stich, Ivanisevic, Lendl, Bruguera tra quelli che gli strinsero la mano da sconfitti. Goran Ivanisevic la pensava allo stesso modo di Becker e scelse Omar come amico compagno di doppio vincendo 3 tornei. Allo stesso modo la pensava Capitan Panatta quando lo riesumava dal lettino del fisioterapista e lo buttava direttamente in campo negli incontri di Davis, sapendo che anche quasi da fermo e di solo braccio poteva battere chiunque, anche da numero 156, e sotto due set a zero.
La spiegazione del perché tal “giocatore incredibile”, non abbia avuto risultati pari alla beckeriana definizione, non era da trovare in un campo da tennis, ma nel fisico di Camporese. Omar aveva la velocità di braccio, la potenza, il modo di colpire la palla, il talento, la capacità di far vincenti e il gioco risolutivo che fa la differenza tra un buon giocatore e un campione, ma il fisico ricordava più quello di un ragazzone impacciato nei suoi enormi piedoni, che non quello di un atleta. Quel fisico sottoposto a continui infortuni, ne avrebbe limitato la carriera specie nei momenti migliori, per poi interromperla precocemente. Pigro di gambe, velocissimo di braccio, Omar Camporese resta il più grande rimpianto del tennis italiano post Panatta.
Gli anni passano, cambiano e modificano. Bologna è meno giovane di allora. Lontano dal centro, in angoli più tranquilli della città, ci sono ancora ragazzini che giocano a tennis. Nessuno pensa più allo scovare un nuovo Panatta. Anche solo un buon giocatore basta e avanza. Simone Bolelli da piccolo sognava di diventare un giocatore di tennis e voleva diventarlo usando quel modello di racchetta che fischia, quello che in mano ad Ivanisevic e Leconte aveva fischiato note sublimi. Ci sarebbe riuscito anche se quel modello l’avrebbe dovuto poi pensionare, per uno più facile. Aveva anche e ha Simone delle cose in comune con Camporese, essenzialmente la capacità di colpire la palla pulita e con potenza e soprattutto la lentezza di gambe e la facile propensione all’infortunio, cose che non gli hanno impedito, pur limitandolo, di diventare il buon giocatore che è ancora.
Gli anni passano, cambiano e modificano. Nelle strade di Bologna non più dagli altoparlanti, parole, canti ed inni alla Rivoluzione. Il vociare è ancora alto, ma da movida silente. Sartre e Baudelaire son morti, ma anche Sarti e Dalla lo sono. I gucciniani “portici cosce” accolgono meno e sempre meno son le storie che essi raccontano. Il giovane movimento punk, teso alla mitteleuropa, ha visto da adulto giunte comunali di destra.
“Ci fu una grande battaglia di idee e alla fine non ci furono né vincitori, né vinti, né idee” (S. Benni).
Fede Torre