Leggi tutti i mercoledì da leoni di Ubitennis
A volte, nello sport, non si vince solo vincendo. Si vince anche solo giocando. Partecipando. Questo non è un mercoledì da leoni bensì con i leoni, nel senso vero del termine. Aveva appena compiuto 21 anni, Paul Wekesa, quando i suoi connazionali John Ngugi, Peter Rono, Julius Kariuki e Paul Ereng monopolizzarono il mezzofondo alle olimpiadi di Seoul. Niente di strano. Gli uomini degli altopiani, quelli che la leggenda vorrebbe imbattibili nelle corse sulla lunga distanza in quanto abituati a correre fin da bambini per andare a scuola, rappresentano da anni l’emblema sportivo del Kenya. Sono gli antenati dei futuri maratoneti che domineranno il mondo, spesso provenienti dalla tribù dei Kalenjin, polpacci e caviglie più sottili e quindi più leggeri, un vantaggio non trascurabile quando devi trascinarteli appresso per oltre 42 chilometri.
Anche Paul ha fatto tanta strada, ma in modo del tutto diverso. Ventotto ore di volo da Nairobi al John Wayne Airport, nella contea di Orange, California, per essere accolto con una certa curiosità dai membri dalla squadra di calcio del Chapman College. Siamo nel 1985 e, insomma, forme più o meno striscianti di razzismo ce ne sono ancora. “Quando dico ai bianchi che vengo dall’Africa, sorridono e mi fanno domande strane. Mi chiedono se ho vissuto in una capanna di bambù o se ho visto i leoni. Ma in fondo non mi interessa granché quello che pensano. Sono qui per cercare di capire se posso diventare un tennista vero o se è meglio che lasci perdere.”
Queste erano le parole del 17enne Wekesa, alla ricerca – insieme al padre Noah – di un college in grado di elevare la qualità del suo tennis. Qualche mese addietro, Paul si è ben disimpegnato all’Orange Bowl ma lo scetticismo nei confronti di un atleta che viene da una nazione così straordinariamente insolita per questo sport non si è attenuato. In realtà, Paul di savana ne ha vista ben poca, così come poco è stato il tempo trascorso all’interno della fattoria di oltre 2000 acri a Kitale, vicino al confine con l’Uganda, di cui i genitori sono i proprietari.
Wekesa ben presto si è trasferito a Nairobi, probabilmente più occidentalizzata di quanto non lo sia la Contea di Orange, in cui i pregiudizi sono duri a morire. “Sapevo quanto fosse importante andare bene a scuola per mantenermi al college in California e i primi tempi saltai qualche partita per frequentare le lezioni; ben presto però mi resi conto che gli standard accademici erano assai più tranquilli rispetto a quelli degli istituti che avevo frequentato nel mio paese e, successivamente, in Inghilterra”. Prima di arrivare al Chapman College, Paul aveva imparato a giocare prendendo lezioni dal padre e Mike Edles, il suo primo vero allenatore negli States, fu piuttosto sorpreso dalle qualità del ragazzo. Tuttavia, a Paul non venne offerta una borsa di studio, nemmeno dopo che il Kenya decise di farsi rappresentare dal ragazzo al torneo juniores del Roland Garros.
Quando, non ancora ventenne, Paul Wekesa fa il suo debutto ufficiale affrontando a Casablanca il Marocco in Coppa Davis (il Kenya perderà 3-2 ma lui vincerà entrambi i singolari), la sua nazione è appena alla seconda partita assoluta nella più importante manifestazione a squadre di tennis maschile, avvenuta oltre un decennio prima. Nei primi tempi il ragazzo si concentra sullo studio e le sue uniche sortite ufficiali riguardano solo la Davis e il Challenger di Nairobi, che vince nel 1988 al terzo tentativo. Nella stessa stagione, Wekesa inizia a fare sul serio. Debutta nel circuito maggiore battendo David Felgate (che diventerà famoso come coach di Henman) sull’erba di Bristol e, qualche settimana dopo a Stratton Mountain, riesce a strappare un set nientemeno che al n°5 del mondo, un certo Andre Agassi. Frequentando e potendosi allenare con i migliori, il gioco di Paul trae enorme beneficio e a farne le spese, a Cincinnati, è un futuro leader dell’ATP, ovvero Jim Courier.
Nonostante i progressi, agli US Open Wekesa gioca solo il doppio e, insieme al bahamense Roger Smith, perde al primo turno ma i giorni della gloria e della fama sono alle porte. A Tel Aviv, il 15 ottobre 1988, per la prima volta un keniano vince un torneo maggiore (sempre in coppia con Smith) mentre agli Australian Open dell’anno seguente Paul diventa il primo tennista del suo paese ad aver giocato un major.
Giunto a Melbourne sull’onda positiva dei quarti di finale conquistati ad Auckland (a spese di Matsuoka e Westphal), Paul deve vedersela con il croato Bruno Oresar, n°54 delle classifiche mondiali. È martedì, ma in Kenya è già mercoledì quando Wekesa reagisce al terribile 0-6 del terzo set, risale la corrente nel quarto, lo fa suo al tie-break e infine chiude 6-4 il quinto scrivendo una piccola grande storia di tennis per sé e per il suo paese. Perderà due giorni dopo da Muster (non prima di aver vinto il primo parziale) ma, se la domanda che si era fatto nei primi giorni del Chapman aveva ancora un senso, era finalmente arrivata la risposta.
Sì, Paul Wekesa era un vero tennista. L’avrebbe dimostrato ancora, negli anni a venire. Giocando almeno una volta ogni Major in singolare e, soprattutto, raggiungendo i quarti di finale di nuovo a Melbourne nel 1992 in coppia con l’israeliano Gilad Bloom. Apprezzato da colleghi ben più famosi di lui, che non esiteranno a prenderlo come compagno occasionale nel tour (Nestor, Knowles, Kucera, Byron Black, Novacek), il doppio più importante della sua vita lo vincerà l’1 febbraio 1992 sulla terra granitica del Nairobi Club, in coppia con il connazionale Eno Polo.
Già in vantaggio 2-0 dopo la prima giornata, i keniani completano il debutto nel gruppo 1 della Davis battendo i rumeni Cosac-Marcu per 7-6, 7-6, 6-3. Questa è, finora, la vetta del tennis in Kenya, terra di leoni, maratoneti e, per qualche anno, di un ragazzo che non esitò a mettersi alla prova per capire cosa potesse diventare. Paul Wekesa, quando si vince anche solo partecipando. O quasi