0 – Le occasioni nelle quali Roger Federer, per vincere uno dei 19 Major coi quali si è presentato ai nastri di partenza di questi Australian Open, aveva dovuto, come invece è accaduto in queste due settimane, affrontare un solo top 15 (e nessuno nelle prime 5 posizioni del ranking ATP). Non occorre tornare agli Australian Open 2017, durante i quali lo svizzero aveva dovuto addirittura sconfiggere quattro top ten (nell’ordine, Berdych, Nishikori, Wawrinka e Nadal) per trovare percorsi più “difficili” per arrivare al successo, sebbene, ovviamente, il ranking di un avversario sia solo uno dei parametri indicativi della difficoltà di un avversario. La classifica, per forza di cose, non dice infatti nulla sullo stato di forma dell’atleta, non considera se la posizione di un tennista è falsata da infortuni, nè valuta le caratteristiche tecnico-tattiche che possono, a seconda dei casi, aumentare o diminuire il coefficiente di difficoltà di un incontro. Tuttavia, da un punto di vista statistico, mai Federer aveva usufruito, seguendo le mere indicazioni della classifica, di un percorso con meno insidie di quello che ha affrontato in questo Australian Open 2018, durante i quali, senza perdere un set, ha affrontato in sequenza, Bedene, 51 ATP; Struff, 55 ATP; Gasquet, 31 ATP; Fuscovics, 80 ATP; Berdych, 20 ATP. In finale, la sfida contro Marin Cilic, 6 ATP già sconfitto in 8 circostanze su 9, prima di affrontarlo domenica nella Rod Laver Arena, ha richiesto invece 5 set, ma l’incredibile record (della portata reale di questo ennesimo trionfo, come accade per gli eventi straordinari, ce ne accorgeremo solo tra anni) di 20 Majors è stato conquistato. Non per forza quello di queste due settimane è stato realmente il percorso con meno ostacoli per vincere uno dei suoi 20 titoli, ma certamente, sulla carta, furono più complessi tabelloni come quelli affrontati all’US Open 2007, quando lo svizzero sconfisse 3 top 5 (Roddick, Daydenko e Djokovic), o a Wimbledon nel 2005 e nel 2012, quando furono comunque 2 i tennisti nella top 5 sconfitti (rispettivamente, Hewitt e Roddick nel primo caso, Murray e Djokovic nel secondo). Più simili al cammino di questo ventesimo Slam conquistato, possono risultare invece Wimbledon 2009, quando Roger sconfisse solo due top 15 – Roddick e Soderling – e, soprattutto, l’Australian Open 2006 (quelli della vittoria in finale su Baghdatis): in quest’ultimo caso, come accaduto quest’anno, Federer dovette sconfiggere un solo top 15, Davydenko nei quarti, che era però tra i primi 5 al mondo. In quella circostanza inoltre, a differenza di quanto accaduto in questi giorni, Roger vinse contro altri 3 top 50 (Mirny, Haas e Kiefer). Particolari che in ogni caso nulla tolgono a imprese come quella suggellata domenica con la vittoria su Cilic, successi per i quali sono terminati gli aggettivi per definirli.
3 – delle ultime 4 eliminazioni al primo turno in uno Slam e 4 delle complessive nove (in 76 partecipazioni a un Major) sono arrivate a Melbourne per Venus Williams, n.5 WTA. Eppure la 37enne californiana era stata finalista all’Australian Open nel 2017, ponendo fine a un’assenza nell’atto conclusivo del torneo australiano durata 14 anni (in entrambe le occasioni ha perso dalla sorella Serena). Nonostante nel primo Slam stagionale si giochi sulla superficie e nelle condizioni (cemento all’aperto) con le quali è tennisticamente cresciuta, non ha mai fatto, abbastanza curiosamente, bene a Melbourne, raggiungendo, oltre alle due su citate finali perse, appena un’altra semifinale (nel 2001, quando venne sconfitta da Martina Hingis). La terza eliminazione al primo turno in 5 anni (nel 2014 fu fermata dalla Makarova, nel 2016 dalla Konta) è arrivata al termine di una bella partita contro Belinda Bencic, due anni fa top 10, ma precipitata al 77°posto del ranking. L’elvetica, reduce dalla trionfale Hopman Cup vinta in coppia con un certo Roger Federer, ha avuto la meglio su Venus in due set: sembrava il trampolino di lancio per Belinda, che invece ha deluso cedendo nettamente al secondo turno alla 24enne tailandese Luksika Kumkhum, 124 WTA. Per Venus arriva l’occasione del riscatto tra dieci giorni con Serena, nel tie di Fed Cup contro l’Olanda, l’appuntamento che vedrà il ritorno ufficiale nel tennis della sua sorella minore.
4 – le eliminazioni consecutive al primo turno rimediate agli Australian Open, con le quali quest’anno è arrivato a Melbourne, Lucas Pouille, 18 ATP e eroe dell’ultima finale di Coppa Davis a Lille, quando sul 2 pari portò nel match decisivo il punto che ha permesso alla Francia di sconfiggere il Belgio e portare a casa per la decima volta l’insalatiera d’argento. Non è riuscito a sbloccare il tabù Melbourne, venendo eliminato d’acchito – ironia della sorte – da un belga, il qualificato Ruben Bemelmans, 117 ATP, vincitore in quattro set. Un brutto colpo per un tennista ormai da due anni atteso al salto di qualità e all’ingresso in top 10, uno step che non riesce a compiere anche per le sue difficoltà nei grandi tornei, Majors o Masters 1000 che siano, nei quali ha raggiunto solo due semifinali, sempre sulla terra (Roma 2016 e Monte Carlo 2017) e appena altri due volte i quarti, all’US Open 2016 (quando batté Nadal negli ottavi) e a Wimbledon 2016. E dire che il francese ha dalla sua un tennis che gli permette di essere competitivo su ogni superficie, come confermano i 4 titoli, seppur minori, raggiunti in carriera: nel 2016 Metz (tappeto indoor), e l’anno scorso a Budapest (terra), Stoccarda (erba) e Vienna (un ATP 5o0, sempre tappeto indoor).
5 – le semifinali raggiunte in carriera nel circuito maggiore, prima di questo Australian Open, dalle due grandi sorprese positive del tabellone maschile, i due Under 23 Kyle Edmund, 50 ATP e Hyeon Chung, 58 ATP. Il britannico, classe ’95, era giunto prima di Melbourne alle semifinali in 4 circostanze (nel 2016 sul tappeto indoor di Anversa, e nel 2017 sul cemento all’aperto a Atlanta e Winston-Salem e, nuovamente in condizioni indoor, nell’ATP 500 di Vienna). Invece, il coreano classe ’96 si era spinto sino alle semifinali solo una volta, sulla terra di Monaco di Baviera la scorsa primavera (la vittoria alle ATP Next gen dello scorso novembre non fa testo, essendo un torneo che non assegnava punti e giocato con regole diverse da quelle seguite nel circuito). Nessuno dei due aveva poi vinto una semifinale e, come sappiamo, neanche a Melbourne hanno sfatato il loro tabù. Lo Slam Down Under resterà per entrambi in ogni caso indimenticabile: per il britannico nato a Johannesburg, in Sud Africa, soprattutto per la prima (rimonta ai danni del recente finalista dell’US Open, Kevin Anderson) e l’ultima (successo in quattro set sul numero 3 del mondo e campione in carica delle ATP Finals, Grigor Dimitrov) delle sue 5 vittorie a questi Australian Open (le altre sono arrivate in 3 set facili su Istomin, 60 ATP, solo 7-5 al quinto contro Basilashvili, 61 ATP e in 4 parziali sul nostro Seppi, 76 ATP). Nulla da fare, in semifinale per il giovane Kyle contro Marin Cilic, che lo ha sconfitto in 3 set. Ancora più prestigioso il cammino percorso da Chung per arrivare alle semifinali: dopo aver approfittato del ritiro al primo turno di Misha Zverev, 35 ATP, ha vinto in 3 set facili lo scontro con il coetaneo Daniil Medevedev, 53 ATP, reduce dal primo titolo a Sydney, liquidato in 3 set. Sono state però le vittorie su due star del tennis a catapultarlo all’attenzione del grande pubblico come possibile futuro campione: prima ha rimontato Sascha Zverev, poi ha avuto la meglio su Nole Djokovic in 3 set combattuti. Nei quarti Chung ha sconfitto in 3 parziali un’altra delle facce nuove proposte dagli Australian Open, il 26enne Tennys Sandgren, 97 ATP, prima di arrendersi e ritirarsi nel corso di una semifinale senza storia contro Roger Federer, disputata in precarie condizioni fisiche a causa di brutte vesciche sotto la pianta del piede. Risentiremo presto (e tanto) parlare di loro.
7 – le semifinali, non considerando questi Australian Open, raggiunte da Marin Cilic nei tornei che costruiscono la carriera di un grande giocatore, gli Slam e i Masters 1000. Un bilancio piuttosto misero per il tennista croato, che già nel 2010 si affacciava nella top 10 (e nel 2009 nella top 20) e che nel 2008, a nemmeno 20 anni, vinceva a New Haven il primo titolo della sua carriera. Ne sarebbero arrivati altri 16, vinti in prevalenza su cemento/indoor, ma anche sulla terra (Umago 2012) e sull’erba (Queens 2012). Il mattone rosso tritato resta la superficie dove Cilic si esprime con maggiori difficoltà: nei tornei importanti su questa superficie, non solo non ha mai raggiunto la semifinale, ma appena in 5 occasioni è arrivato ai quarti. Sul cemento all’aperto americano Marin ha vinto i suoi titoli più importanti: il Masters 1000 di Cincinnati nel 2016, ma, soprattutto, l’US Open 2014, nei quali, dai quarti in poi, esprimendo il miglior tennis della sua vita, sconfisse tre giocatori del calibro di Berdych, Federer e Nishikori senza perdere set. Oltre a questi due successi, la terza vittoria in una semifinale di prestigio è arrivata a Wimbledon 2017 (vs Querrey). Questa volta a Melbourne ha costruito un’altra pagina molto importante della sua carriera con l’approdo alla terza finale Slam: dopo un esordio combattuto, nel quale è stato costretto a lasciare un set contro Pospisil, ex top 30 attualmente 105 ATP, ha vinto senza perdere parziali su Joao Sousa, 70 ATP e Ryan Harrison, 45 ATP. Negli ottavi sono occorse tre ore e mezza e quattro set con tre tie-break per avere la meglio su Carreno Busta, 11° giocatore al mondo, ma è nei quarti che Marin ha mostrato il suo grande valore, tecnico e mentale. Sotto nel punteggio, prima di un set e di un break, poi due parziali a uno, non ha mai mollato contro il numero 1 al mondo, Rafa Nadal (che lo aveva battuto 5 volte in 6 precedenti), portandolo a uno sforzo tale da costringere il campionissimo maiorchino a ritirarsi all’inizio del quinto set. La semifinale contro Edmund, 49 ATP, è stata quasi dominata, consentendo a Marin l’accesso alla quarta finale (la terza negli Slam) importante della sua carriera. Nell’atto conclusivo del torneo, Cilic ha ancora dato prova di essere giocatore capace di esprimere un grande tennis, arrendendosi solo al quinto set contro Federer
9 – i tennisti italiani che hanno partecipato ai main draw dei singolari degli Australian Open 2018: un numero quantitativamente elevato per i nostri standard. Anche qualitativamente, questa edizione dello slam Down Under ha portato a soddisfazioni alle quali non siamo abituati. La qualificazione di due uomini, Fabio Fognini e Andreas Seppi, agli ottavi di un Major non accadeva dal 1976 e poco importa che entrambi abbiano sconfitto solo giocatori di classifica inferiore alla loro, prima di arrendersi rispettivamente a Berdych e Edmund. Nell’ordine in cui li ha affrontati, Fabio ha mandato a casa Zeballos, 66 ATP, Donskoy 72 ATP e Benneteau, 59 ATP e analogo è stato il percorso di Andreas, capace di eliminare in sequenza la wild card Moutet, 155 ATP, Nishioka, 168 ATP e, infine, Karlovic, 89 ATP. Per non sottostimare questi risultati, basti pensare che a Melbourne, il ligure aveva perso 7 volte da giocatori peggio classificati di lui, venendo inoltre eliminato al primo turno ben 7 volte: un’inversione di marcia netta che fa ben sperare per il prosieguo della sua stagione e il relativo obiettivo dichiarato, il ritorno nella top 20. Anche Andreas Seppi, per la quarta volta agli ottavi a Melbourne, ha iniziato molto bene il 2018, vincendo il Challenger di Canberra (sconfiggendo 4 tennisti nella top 100, tra i quali, in finale, Fucsovics): l’anno scorso il bolzanino si spense dopo la trasferta australiana, vedremo come andrà quest’anno. Splendido anche il cammino di Lorenzo Sonego: il 22enne piemontese si è qualificato – eliminando nel tabellone cadetto anche un talentuosissimo per quanto incostante Tomic – per la prima volta in carriera in uno Slam (e a un evento del circuito maggiore, più in generale) e ha ottenuto anche la sua prima vittoria a questo livello, avendo la meglio su Haase, 43 ATP. Il piemontese nel secondo turno nulla ha potuto contro Gasquet, ma il suo resta un ottimo bilancio, nonché un bagaglio di esperienza e fiducia preziosissime col quale proseguire la stagione. Unico altro azzurro a superare un turno è stata Camila Giorgi, reduce dalle ottime semi di Sydney: la maceratese, apparsa più matura, ha domato in due set la qualificata russa Kalinskaya, 160 WTA, prima di crollare al terzo contro la beniamina locale Ashleigh Barty, 17 WTA. Un buon torneo tutto sommato per Camila e più in generale un’ottima trasferta australiana: ora non resta che sperare che trovi anche quella continuità nel rendimento che sin qui le è sempre mancata. Per il resto, solo sconfitte al primo turno per i nostri giocatori: nulla da fare, ma esperienza comunque positiva per due esordienti a questi livelli come Salvatore Caruso – qualificatosi e fattosi rimontare da due set sopra (anche a causa dell’aver giocato l’ultimo turno delle quali il giorno prima) contro Malek Jaziri, 100 ATP – e Matteo Berrettini, lucky loser ed eliminato con un triplice 6-4 da Adrian Mannarino, 27 ATP. Sconfitte che confermano un’inerzia negativa di risultati negli ultimi mesi sono arrivate per Paolo Lorenzi, eliminato in 5 set da Dzumhur, 30 ATP e per Thomas Fabbiano, autore quantomeno di una buona prova con Sascha Zverev, quarto giocatore al mondo. Infine, non ha nulla da rimproverarsi Francesca Schiavone: sulla Rod Laver Arena ha impensierito per un set la campionessa in carica del Roland Garros, Ostapenko.
11 – i Major giocati da Caroline Wozniacki prima di riuscire a tornare in finale: la seconda e ultima volta era stata la finale degli US Open 2014, persa contro Serena Williams (la prima, sempre a New York, l’aveva vista sconfitta nel 2009 contro Kim Clijsters). In generale, i tornei del Grande Slam non avevano mai portato fortuna alla danese, numero 1 al mondo per 67 settimane (tra il 2010 e il 2012) e vincitrice, prima di questo Australian Open, di ben 27 titoli in carriera. Numeri che stridevano con il palmares nei Majors con il quale la Wozniacki si è presentata due settimane fa a Melbourne: “appena” due finali, sei semifinali e nove quarti in totale (mai a Wimbledon). Caroline è arrivata al primo Slam dell’anno come numero 2 del mondo, reduce dalla grande vittoria alle WTA Finals di Singapore a fine ottobre e dalla finale di Auckland persa con la Georges. Dopo aver avuto vita facile contro Mihaela Buzarnescu, 44 WTA, la danese nel secondo turno è stata sull’orlo del baratro contro la croata Jana Fett: sotto 1-5 nel terzo, ha poi annullato due match point nell’ottavo gioco, prima di accedere ai sedicesimi. Caroline ha poi ceduto pochi games sia contro Kiki Bertens, 32 WTA, che quando si è trovata opposta dall’altra parte della rete Magdalena Rybarikova, 21 WTA. Qualche patema in più nei quarti, quando ha smarrito al tie-break il secondo set contro la Suarez Navarro, 39 WTA, mentre la prima finale Slam dopo quasi tre anni e mezzo è arrivata sconfiggendo in semifinale, la sorpresa del torneo, Elise Mertens, 37 WTA, eliminata col punteggio di 6-3 7-6 (2). Nella finale, che metteva in palio anche la corona di numero 1 al mondo, Caroline ha finalmente infranto la maledizione e portato a casa il suo primo Major, tassello importantissimo che mancava alla sua già illustre carriera: dopo quasi tre ore di battaglia ha avuto la meglio su Simona Halep, tornando contestualmente alla cima del ranking dopo quasi 6 anni.
13 – le volte in carriera nelle quali Rafael Nadal ha interrotto a causa di un infortunio la sua partecipazione in un torneo: 4 volte prima di entrare in campo (Estoril 2004 contro Labadze, Miami 2012 vs Murray, Roland Garros 2016 con Granollers, Bercy 2017 con Karijinovic) e 8, non contando l’ultima a Melbourne con Cilic, ritirandosi a partita in corso (in un Challenger francese nel 2013 contro Gasquet, a Auckland nel 2005 contro Hrbaty, al Queen’s nel 2006 con Hewitt, nel 2007 a Sydney con Guccione, a Cincinnati 2007 con Monaco, a Bercy 2008 con Davydenko, negli Australian Open 2010 con Murray e a Miami 2016 con Dzuhmur). Per fare un raffronto abbastanza indicativo (nella seguente statistica non rientrano i periodi in cui i tennisti sono stati assenti dal circuito a causa di infortuni) con altri grandi campioni suoi contemporanei Federer si è ritirato 3 volte (3 walk over, mai a partita in partita in corso), Wawrinka 7 (5 ritiri e 2 w.o.) , Murray 8 (4 ritiri e 4 walk over), Ferrer 9 (6 ritiri e 3 w.o), Djokovic 14 volte (13 ritiri, 1 walk over) e Del Potro 18 (15 ritiri e 3 w.0). Il numero 1 al mondo, che aveva inaugurato il suo 2018 tennistico direttamente a Melbourne, aveva vinto senza perdere un set i primi tre turni contro Estrella Burgos,79 ATP, Leonardo Mayer, 52 ATP e Dzumhur, 30 ATP, prima di accedere ai quarti dopo aver perso negli ottavi un parziale contro Diego Schwartzman, 26 ATP. Nei quarti, pur non apparendo mai brillante, contro Marin Cilic si è trovato avanti due set a uno, prima di subire un infortunio che all’inizio del quinto l’ha costretto a ritirarsi dalla partita. Il 10 volte campione del Roland Garros nella conferenza stampa post match è tornato a esporsi in una sua antica battaglia: nel tennis contemporaneo, a suo avviso, si gioca troppo su superfici pericolose per l’incolumità dei professionisti. Sempre secondo lui, molti rischiano di avere una vita nel post carriera condizionata da acciacchi. Accuse pesanti che certamente saranno riproposte: vedremo quanto inciderà nei prossimi anni il parere di un campionissimo come il tennista maiorchino.
30 – le semifinali Slam giocate da Nole Djokovic, dopo la prima, quella persa in 3 set da Rafa Nadal nel Roland Garros 2007, primo Major della sua carriera dove arrivò sino al penultimo turno. Era da 11 anni che il campione serbo, allora 20enne, non riusciva per quattro volte consecutive a raggiungere la semifinale di un torneo del Grande Slam nel quale era iscritto. Gli è successo nuovamente in questi giorni, venendo eliminato a Melbourne agli ottavi da Chung. Questa eliminazione è stata infatti il quarto atto di una triste epopea per l’ex numero 1 al mondo, il cui primo episodio erano stati gli Australian 2017 (eliminazione al secondo turno contro Istomin), seguiti da Roland Garros (quarti persi con Thiem) prima e Wimbledon poi (ritiro contro Berdych, sempre ai quarti). Un sintomo grave per un fenomeno di continuità ad altissimi livelli- basti pensare che sino a Wimbledon 2016 aveva mancato solo una volta la semi (AO 2014 contro Wawrinka) nei 24 Major giocati a partire dai Championships 2010. Non solo indicazioni negative sono arrivate dal suo ritorno ufficiale in campo: il campione serbo, tornato a giocare con un movimento del servizio modificato per preservare il gomito malandato, ha inanellato due successi tecnicamente probanti, contro un top 40 come Monfils, reduce dalla vittoria a Doha e su Albert Ramos, 22 ATP, sconfitto in tre comodi set. Preoccupano, più che la sconfitta patita con Chung in sè stessa, le dichiarazioni post-partita che l’hanno visto menzionare la possibilità di prendersi un ulteriore periodo di pausa.
210 – le settimane di permanenza consecutiva nella top 10 di Simona Halep (vi entrò il 27 gennaio 2014), un record assolutamente rilevante, specie se confrontato con quello delle altre tenniste che occupano le prime 10 posizioni del ranking WTA pre Australian Open: sono tutte entrate nel gotha della classifica solo nel 2017, ad eccezione di Karolina Pliskova, che vi permane ininterrottamente dal settembre 2016. Ancora più importante, per testimoniare la grande costanza ad altissimi livelli della 26enne rumena, è la sua permanenza da maggio 2016- ad eccezione di una sola settimana – nella top 5, altro record ineguagliato dalle sue colleghe. Tutti numeri che testimoniano, da una parte, il positivo grande equilibrio che negli ultimi anni regna nel circuito WTA, capace di permettere un continuo ricambio al vertice; dall’altra, la grande difficoltà di trovare protagoniste costanti alle quali il pubblico possa affezionarsi. A Melbourne, dove Simona in 7 partecipazioni aveva perso 4 volte al primo turno, non arrivando mai alle semifinali, nei primi due turni ha superato senza difficoltà la wild card locale Destanee Aiava, 193 WTA, e l’ex top ten Eugenie Bouchard, 112 WTA. Nel terzo turno ha rischiato più che seriamente di uscire, annullando a Lauren Davis, 76 WTA, 3 match point consecutivi nel 22°gioco del terzo set, poi vinto 15-13 dopo 3 ore e 47 minuti di partita. L’allieva di Darren Cahill ha poi concesso soli 5 game sia a Naomi Osaka, 72 WTA, che a Karolina Pliskova, 6 WTA, prima di annullare in semifinale altri 2 match point nel 12°gioco del terzo, poi portato a casa col punteggio di 9-7.