I limiti di Simona Halep
“Chi vince festeggia, chi perde spiega”, dice un motto che sintetizza una inevitabile verità dello sport. E infatti conta meno che Wozniacki, anche nella giornata più felice della carriera, abbia mostrato lacune: la vittoria le ha spinte in secondo piano, sovrastate dal successo raggiunto. Rimangono invece, presenti in primo piano, i limiti di Simona Halep, che per la terza volta ha visto sfuggire una finale Slam, con grandi rimpianti e recriminazioni. Perché chi perde rimugina, si interroga e ripensa al torneo chiedendosi dove, e cosa, ha sbagliato. Insomma: chi perde spiega. Provo a spiegare.
Fondamentalmente sono due le critiche che mi sento di avanzare a Simona. La prima è di carattere mentale: dopo il primo periodo di affermazione nel circuito, nel 2013-14, la Halep arrembante e in crescita (vincitrice di 7 tornei nel giro di pochi mesi) si è parzialmente spenta, soprattutto nelle occasioni importanti. Quanto più usciva dal ruolo di underdog e diventava invece una delle protagoniste più attese, una possibile favorita, tanto più emergevano la paura di vincere e la difficoltà a concretizzare gli obiettivi più importanti. Simona non solo ha perso tre finali Slam (tutte al terzo set set, una per 6-3, le altre per 6-4), ma prima di raggiungere il numero 1 del mondo ha diverse volte fallito il match chiave, perdendo la partita che le avrebbe dato i punti decisivi per salire sul trono del ranking. E ha finito per riuscirci più per deficit altrui (la sconfitta ai gironi del Masters di Muguruza) che per vittorie proprie.
Non credo di dire nulla di nuovo se sottolineo che troppo spesso in Halep è emersa la tendenza a bloccarsi sul più bello, assumendo atteggiamenti eccessivamente prudenti, con scelte di “braccino” che hanno finito per condizionare i match. Un comportamento che in passato le è costato sconfitte dolorose, ma che si è manifestato anche in alcune vittorie agli Australian Open 2018, dove troppo spesso ha dovuto soffrire oltre il lecito per portare a casa match condotti sul filo del rasoio. Come se solo di fronte a una situazione quasi disperata per lei fosse possibile riuscire a mettere in campo tutto quello che ha dentro di sé, e sconfiggere l’avversaria.
Ricordo che in questo torneo Halep ha dovuto fronteggiare due set point al primo turno contro la numero 189, la diciassettenne Destanee Aiava (sul 2-5, 15-40 primo set); poi tre match point al terzo turno contro Lauren Davis, numero 76 WTA (sul 10-11, 0-40 terzo set). Poi ancora due match point in semifinale contro Kerber, prima di perdere da Wozniacki. Avversarie di valore differente, eppure ogni volta Simona si è messa nella condizione di dover lottare punto a punto, camminando pericolosamente sull’orlo del precipizio.
Se sei la numero 1 del mondo può starci di faticare, ad esempio, contro un’avversaria come Lucic-Baroni in giornata di grazia; ma non puoi, non devi, farti trascinare in un duello all’ultimo sangue da Lauren Davis, una giocatrice dalle caratteristiche simili alle tue, che però è scesa in campo con un atteggiamento più coraggioso e grazie a quello ti ha fatto soffrire sotto un sole cocente per tre ore e 44 minuti (4-6, 6-4, 15-13). Tutto questo le è costato preziosissime energie fisiche e nervose, facendola approdare alle fasi decisive del torneo con la spia del carburante accesa. E se fisicamente non si è al 100%, diventa impresa improba spuntarla contro una maratoneta come Wozniacki.
La seconda critica che mi sento di avanzare è tecnico-tattica. Halep nel tempo non è riuscita a evolversi, e ha finito per contare su un tennis piuttosto monodimensionale. Sia chiaro, non sto dicendo che rispetto alla giocatrice delle prime affermazioni di 4-5 anni fa sarebbe dovuta diventare una tennista radicalmente diversa; ma sembra non essere riuscita a progredire in alcune soluzioni che potrebbero ovviare ad alcuni suoi limiti strutturali. Evidentemente Simona non potrà mai far viaggiare la palla con la potenza, ad esempio, di Keys o di Ostapenko, seppellendo di vincenti le avversarie. Né riuscirà a servire come Serena o Pliskova, conquistando turni di battuta senza nemmeno dover entrare nel palleggio. Però possiede altre caratteristiche che a mio avviso non è riuscita a far progredire a sufficienza.
Disporre di due solidi fondamentali in top-spin ne fa una tennista molto concreta nello scambio di ritmo da fondo, ma questo non basta per raggiungere i picchi di gioco necessari perché sia regolarmente lei a determinare le sorti dei match contro avversarie di prima fascia. L’altra sua grande dote, la mobilità, emerge soprattutto nelle fasi di contenimento, ma non è riuscita a trasformarla in una qualità altrettanto decisiva nelle fasi offensive.
Provo a ragionare sul problema. Se non sei strapotente hai altre possibilità per decidere le sorti del punto? Secondo me sì, a patto di saper ottenere vincenti in altro modo: lavorando sulla verticale del campo, e sui tempi di gioco. A scanso di equivoci: nel tennis di oggi costruire sulla verticale non significa dover fare per forza serve&volley. Significa però saper capitalizzare in pieno i vantaggi che ci si procura durante lo scambio, trovando il modo di concluderlo a proprio favore. Muguruza, ad esempio, ha la naturale tendenza all’avanzamento: questo può tradursi in una conclusione in forma di volèe o in forma di schiaffo al volo. A volte le cose possono andare bene, a volte no, e capita di sbagliare (Garbiñe nei pressi della rete non è certo una Navratilova); ma resta il fatto che se ne ha l’opportunità, Muguruza prende sistematicamente in mano il palleggio, e punta a concluderlo.
Ma ci sono altri modi di consolidare i vantaggi dello scambio, e si possono ottenere anticipando i colpi al rimbalzo. Halep copre molto bene il campo soprattutto in orizzontale, ma a mio avviso non si è dimostrata altrettanto efficace nel muoversi in avanti e in diagonale. Per chiudere uno scambio non è detto che si debba colpire di volo: può anche essere sufficiente approfittare di una palla più corta per anticipare il rimbalzo e togliere tempi di gioco all’avversaria. In questo ad esempio è fenomenale Azarenka, ma anche Bencic non è da meno: quando la palla è più corta, invece che aspettarla, entrambe sanno tagliare il campo in diagonale, avanzando e colpendo la parabola “on the rise”. In questo modo sottraggono all’avversaria frazioni di secondo vitali, rendendo impossibile organizzare una replica.
Certo, non sono doti da tutte: per andare oltre il tennis di regolarità, aggredendo i tempi di gioco, occorre essere molto lucide tatticamente, e possedere un timing superiore. E ci vogliono speciali qualità tecniche: non è facile uscire repentinamente dal confronto di ritmo, e dalla meccanica del colpo eseguito con margine, per entrare nel campo e chiudere di controbalzo. Ma se si vuole primeggiare occorre saper utilizzare questo tipo di soluzioni superiori. Perché possedere un buon rendimento “standard” mette nella condizione di sfiorare i grandi traguardi, ma il più delle volte non basta per raggiungerli.
Spesso in conferenza stampa Simona rivendica la sua capacità di essere aggressiva: ma forse proprio il fatto che lo sottolinei con grande frequenza è il sintomo che per essere più offensiva debba andare contro la sua indole profonda. Il problema è che andare “contro” il proprio istinto, forzare la propria indole, è forse la cosa più difficile che esista nel tennis.
E per il futuro? A mio avviso, come è accaduto a Wozniacki, non è affatto escluso che anche Halep riesca a togliersi grandi soddisfazioni. Del resto a ventisei anni ha tutto il tempo davanti per provarci ancora. La vedo in questo modo: se riuscirà a migliorarsi, semplicemente diventerà più forte e competitiva, e allora molto dipenderà da lei. Se invece non riuscirà a progredire, avrà bisogno di un po’ più di aiuto dalla sorte, sotto forma di tabelloni fortunati e di avversarie non irresistibili nella partite decisive dei grandi tornei. Meno probabile, ma direi ugualmente non impossibile.
P.S. La prossima settimana tornerò sulle altre protagoniste degli Australian Open, finaliste escluse.