Hsieh Su-Wei
Per qualità di gioco Hsieh Su-Wei è stata la protagonista a sorpresa della prima parte del torneo. Cinese di Taiwan, pur avendo ormai 32 anni (è nata nel gennaio 1986) ed essendo quindi da parecchio nel circuito, non penso sia poi così conosciuta, anche perché nelle ultime stagioni ha ottenuto i migliori risultati in doppio (ha vinto Wimbledon, Roland Garros e Masters).
Per chi la vede per la prima volta, è difficile credere di trovarsi davanti a una tennista professionista, visto che non sembra nemmeno un’atleta: senza muscoli visibili, è tanto magra da far temere sia sottopeso. Quando poi comincia a giocare ci si accorge che non esegue alcun colpo in modo ortodosso. Il suo tennis è uno sport a parte, che quasi non ha punti di contatto con quello canonico, insegnato dai maestri.
Servizio con preparazione anomala, colpi da fondo a due mani da entrambi i lati (ma anche a una, per i chop e gli slice). Queste caratteristiche, unite a uno swing estremamente compatto e limitato, rendono la sua direzione di palla semplicemente illeggibile: per capire dove finiranno le sue parabole occorre aspettare un tempo “infinito”, a volte fino a quando la palla è ormai quasi nel proprio campo. Per le altre giocatrici, abituate a individuare la direzione di palla ancora prima che abbia lasciato il piatto corde della racchetta avversaria, significa dover completamente resettare i ritmi di gioco, e accettare di misurarsi con uno sport diverso. Contro Hsieh si rischia di essere sempre in affanno, non tanto perché la palla viaggia particolarmente veloce, quanto perché si è costrette a muoversi in ritardo rispetto agli standard abituali.
Ma anche per Su-Wei non è semplice riuscire a mettere in campo un tennis competitivo, visto che per lei sono fondamentali manualità e tocco. Angoli strettissimi, drop-shot, parabole alte alternate a parabole tese, colpi slice senza peso seguiti da accelerazioni improvvise: il risultato è una mescolanza che può far soffrire le avversarie al punto da sembrare sadica; e che però in un attimo può trasformarsi in masochista. Giocando così, infatti, è sufficiente perdere un minimo di lucidità e di controllo per iniziare a produrre errori non forzati in serie. Basta pensare al suo primo turno a Melbourne per rendersene conto. Hsieh ha vinto contro la qualificata cinese Zhu, numero 114 del ranking, per 0-6, 6-0, 8-6. Punteggio che dà la misura degli alti e bassi a cui può andare incontro.
Scampata per un soffio all’eliminazione immediata, Su-Wei ha poi sfoderato prestazioni oltre ogni previsione contro tre nomi che rappresentano l’aristocrazia del tennis femminile. Tre giocatrici che in passato sono state numero uno o due del mondo e tutte con all’attivo una finale a Wimbledon: Muguruza (che a Londra è campionessa in carica), Radwanska e Kerber. Secondo turno: 7-6(1), 6-4 a Muguruza. Terzo turno: 6-2, 7-5 a Radwanska. Quarto turno: 6-4, 5-4 contro Kerber. Ancora un game ed era fatta.
Sull’orlo del precipizio, Angelique ha saputo tenere duro, gestire la crisi di nervi che stava per sopraffarla aggrappandosi a un tennis di totale umiltà, fatto soprattutto di rincorse alternate a qualche accelerazione disperata, eseguita per liberarsi dallo stress e dalla ragnatela avversaria. Kerber ha vinto 4-6, 7-5, 6-2, ma probabilmente lo sforzo enorme a livello fisico e mentale che ha dovuto compiere si è fatto sentire più avanti, nei momenti decisivi del torneo.
Nell’intervista post-match Hsieh ha spiegato che gioca un tennis “free style”, in cui a volte decide in extremis cosa fare, facendosi guidare dall’ispirazione dell’ultimo istante. E malgrado la sconfitta ha saputo aggiungere un tocco di deliziosa autoironia quando ha raccontato: “Le avversarie fino all’ultimo non sanno dove tirerò? A volte non lo so nemmeno io”.
A distanza di dieci anni Hsieh è tornata negli ottavi di finale agli Australian Open (2008 – 2018). Il tennis che ha messo in mostra a Melbourne non era solo complesso e imprevedibile: sembrava quasi diabolico. Diabolico e geniale. C’era tanta creatività, ma anche una punta di malvagità nel modo di “scherzare” avversarie di grande nome, mandandole in bambola a vagabondare per il campo, a rincorrere soluzioni che erano basate su tempi di gioco continuamente variati, e su posizionamenti di una precisione chirurgica. Come se non bastasse, a questo Su-Wei ogni tanto aggiungeva una scelta particolare: durante gli scambi a volte si fermava completamente; del tutto immobile immediatamente prima di colpire, a rendere ancora più imprevedibile la soluzione che avrebbe sfoderato. Una specie di sospensione del tempo nel bel mezzo del palleggio, che nessun’altra si potrebbe permettere.
Ho seguito molti match di Su-Wei in passato, anche in periodi di maggiore continuità di risultati (è stata numero 23 del mondo nel 2013), e non ho dubbi: mai l’avevo vista su livelli del genere. Tanto che a un certo punto della partita contro Kerber ho pensato che se avesse sconfitto anche Angelique, e se fosse stata in grado di continuare su quegli standard, avrebbe vinto il torneo.
Certo, c’erano due “se” non da poco. Il primo non cosi irrealizzabile, visto che ci è andata davvero vicina a sconfiggere Kerber; il secondo difficile da quantificare perché non so se si riesca a proporre in modo proficuo un tennis così difficile per tante partite consecutive. Farei questo paragone: è come un sesto grado dell’arrampicata senza corde di sicurezza, sempre in free solo. Si riesce a non cadere mai per così tanti match? La logica suggerirebbe di no, ma a Melbourne Su-Wei è arrivata a farmi pensare che fosse possibile.
Resta da vedere se saprà ripetersi in futuro. Fosse ancora in grado di praticare un tennis di tale qualità sono convinto che nessuna avversaria, davvero nessuna, potrà entrare in campo sicura di sconfiggerla.