Se i giocatori sono ovviamente il principale motivo per cui i biglietti vengono venduti e il pubblico accorre, in un torneo di tennis si nascondono decine di altre personalità che varrebbe la pena raccontare. Più volte. All’arena Ahoy di Rotterdam c’è una figura storica e affascinante, adorato da tutti e vero e proprio pilastro della manifestazione. Lo si incontra mentre cammina sghembo tra il parterre del campo centrale, il ristorante dei giornalisti e le scale che portano alla sala stampa, sempre con un treppiede e un obiettivo appoggiati sulla spalla.
La prima edizione del torneo si tenne nel 1972: vinse Arthur Ashe, che è ancora il più titolato di sempre qui con tre successi, anche se il primo non viene conteggiato nell’elenco ufficiale. L’anno seguente non si giocò, ma ininterrottamente dal ’74 l’appuntamento di Rotterdam è una tappa preziosa del circuito. Henk Koster è il fotografo ufficiale del torneo, e i suoi scatti hanno descritto tutte le edizioni. Più o meno: “Nel ’74 feci richiesta per fotografare ma mi rifiutarono l’accredito perché ero freelance, non avevo nessun datore di lavoro e all’organizzazione non andava bene. Ho iniziato l’anno dopo, e da allora sono il fotografo ufficiale. 42 anni, sì” dice sorridendo e gonfiando il suo già paffuto viso, aggrottando la fronte come a sentire il peso di tutto questo tempo.
Di fianco ai campi di allenamento si stagliano dei parallelepipedi di cartone: su ogni facciata di ciascuno c’è la foto del campione di una singola edizione, da Ashe fino a Tsonga. “Tutte foto mie” racconta Henk con orgoglio. L’albo d’oro riporta anche il dorato nome di Jimmy Connors, che si rese protagonista di una delle sue follie. E Henk era lì: “Mi arrivò una telefonata alle 3 del mattino: Connors sarebbe arrivato con il jet privato di lì a poco. Veniva dalla California, se non sbaglio”. Nulla di troppo assurdo, se non che Jimbo aveva una discreta voglia di fare attività fisica: “Mi dissero che voleva giocare. Subito, appena arrivato, in piena notte. Andai a prenderlo insieme a Martin Koek, che oggi lavora con la federazione olandese. E all’alba, dopo quattordici ore di volo, Connors chiese di poter scambiare con Koek (best ranking di 555 a fine anni ’70, ndr)“. Jet lag, stress da viaggio? “Niente. Ho una foto di Koek disteso all’alba su una sorta di frigorifero del campo di allenamento, spompato, mentre Connors continuava a sgambettare”.
Decine di aneddoti da raccontare, mentre si sistema meglio su uno sgabello del bar della sala stampa. E la memoria non può che portarlo a Roger Federer, che qui è alla nona apparizione. La prima fu nel ’99, Henk lo conobbe allora, quando Federer ancora non aveva la patente. “Ottenne una wild card. Era già considerato un futuro fenomeno, la Nike puntava giù su di lui. Mi avvicinai per salutarlo e spiegargli il piano di lavoro, avevo in mente uno shooting da realizzare fuori dal campo, magari sugli spalti o nello spogliatoio. Lui fu tutto orecchi, non si perse una sillaba. Poi però mi interruppe: – D’accordo, va bene. Ma prima devo chiamare mio papà e dirgli che mi sono qualificato -“. Le altre foto di quel servizio sono disponibili sui canali social del torneo.
Wim Buitendijk, direttore del torneo dal 1984 fino al 2003, anno della sua morte, è stato uno dei personaggi più controversi che abbiano mai frequentato l’Ahoy (di cui era impiegato quando ancora lo stadio era di proprietà della città). “Dava wild card a giocatori non olandesi, non se ne curava minimamente” ricorda Hank, che rifugge assolutamente la scarsa stima riservata a Buitendjik dai locali addetti ai lavori. “Era una persona straordinaria, sia al lavoro che nella vita normale. Era ovvio non risultasse simpatico ai giocatori olandesi, semplicemente perché preferiva invitare stranieri più talentuosi. Ero presente quando un tennista di casa, di cui però non ricordo il nome, gli si avvicinò per chiedere come non avesse ricevuto la wild card”. La risposta di Wim fotografa la sua personalità meglio di qualsiasi scatto Henk abbia mai potuto immaginare: “Disse: Perché non faresti il bene del torneo, non mi servi. E se ne andò”.
Henk viaggia per il mondo seguendo il tennis, ma la sua patria rimane la sua più grande passione: “Seguo la squadra di Davis da quando ho iniziato. È un’esperienza difficile da spiegare, perché si allontana molto dal concetto di tennis come sport individuale. Viaggio con i ragazzi, stiamo insieme tutta la settimana. E conosco dinamiche che nessun altro può immaginare: al primo turno qui Haase e De Bakker hanno giocato contro. Si allenano sempre insieme, viaggiano insieme spessissimo. Si poteva quasi respirare il disagio, non è mai facile affrontare un amico”. Meticoloso nel proprio lavoro, Henk vola tra il campo e la sala stampa, che è nella pancia dell’Ahoy, al piano di mezzo. Lo conoscono ovviamente tutti, giornalisti e giocatori, ed è una miniera di racconti e storie. Si alza, il lavoro chiama. Grazie mille, magari ci vediamo il prossimo anno. “Tanto mi trovi qui”.