Delle molte bellezze che il tennis ha saputo offrire negli ultimi anni, siano giocatori nella loro totalità, partite, addirittura tornei, o anche semplici esecuzioni, il rovescio di Gasquet può e deve arrogarsi il diritto di presenza. Estraendo questo colpo dal ‘sistema Gasquet’ – più tardi lo inquadreremo – è difficile non percepire una fastidiosa sensazione di perfezione, che comincia a palesarsi dal momento in cui la palla si direziona verso il suo fianco sinistro e induce il tennista francese a preparare l’impatto in modo tanto rococò – che a uno verrebbe da pensare ‘Richard, anche meno sai‘ – da stridere con la compostezza dello schiocco finale. Ogni traiettoria, anche la più sporca, subisce lo stesso inesorabile destino: a partenza dal centro perfetto dell’ovale cambia la sua inerzia e va a fendere l’aria (e offendere le difese avversarie) con molta più velocità di quanta si attribuisse possibile al corpicino un po’ raccolto del suo estensore – diciamocelo: non il prototipo di un atleta – che all’istante si dichiara pronto a colpire un altro. E sebbene ritorni pigramente al centro del campo è chiaro che sì, lui preferirebbe colpire un altro rovescio piuttosto che un volgare dritto, il colpo che decenni di storia tennistica hanno dichiarato ‘principe’, bilancia di tornei e di carriere. Lo si vede chiaramente sbuffare, a questo pensiero.
La carriera di Richard Gasquet, difatti, deve – tra le altre cose – a un dritto non all’altezza la sua sistemazione nel girone degli incompiuti, se incompiuto può definirsi chi per tre volte finisce tra i migliori quattro di un torneo ‘di quelli che contano’ e per quattordici volte solleva un trofeo, sebbene di quelli che contano un po’ meno. Qui, per la prima volta, ci accorgiamo che Richard Gasquet è un giocatore a rovescio. Non soltanto perché il suo rovescio è effettivamente un’esecuzione teleguidata, condannata a riprodurre in eterno una certa perfezione stilistica, mentre il dritto balla e non sempre a ritmo, ma perché dal suo precoce talento carico di noblesse tennistica – Les Petit As, 1999, una partita che ricordano tutti: guardate quanto il tredicenne Richard era già fiero di proiettare in alto la racchetta dopo aver colpito un rovescio – ci si attendeva che avrebbe col tempo imparato a snobbare i tornei minori per esprimersi laddove i montepremi ingolosiscono di più e gli avversari fanno venire voglia di spendere anche l’ultima goccia di sudore. Gasquet invece, il sudore, non l’ha mai veramente amato, o comunque non quanto avrebbe dovuto per completare un quadro le cui prime pennellate promettevano fiumi di esposizioni e mecenati pronti a fare follie per averlo in salotto.
Eppure il suo coach Thierry Tulasne, che si è unito a Fabrice Santoro appena un paio di mesi dopo il suo ingaggio nel settembre 2017, si dice soddisfatto della tenuta atletica del suo allievo. Thierry ce lo ha confessato a Montpellier, dopo aver presieduto all’ultimo allenamento pre-quarti di finale – ‘Ora ne parliamo‘, ha sorriso, ‘ma prima dobbiamo finire l’allenamento‘. Nelle sedute il timoniere sembra proprio Tulasne, il più prodigo di consigli e il più attento – Fabrice deve anche piegarsi alle pubbliche relazioni, ma che vuoi siamo in Francia e nessuno sembra essersi dimenticato del Mago – eppure ogni collega giura che l’head coach è a tutti gli effetti Santoro, mentre Tulasne (ex allenatore di Simon e Grosjean, che adesso dirige il torneo) fungerebbe da prezioso supporto. Santoro ha promesso di dedicare dodici mesi unicamente a Gasquet, prima di gettarsi prevedibilmente nella corsa al sostituto di Yannick Noah pronto a mollare al termine di questa stagione la guida del team Davis francese.
Nonostante la deferenza nei confronti di Santoro, è Tulasne che interroghiamo per toglierci ogni dubbio sull’universo Gasquet. “Io e Fabrice lavoriamo insieme, il programma però non è di seguirlo entrambi in ogni torneo: nelle trasferte io o lui, qui siamo a casa e non fa testo”. Dicevamo che Thierry è soddisfatto della risposta di Richard sul campo, tanto in allenamento quanto in partita. “La scorsa stagione non è stata semplice per lui. Dopo l’operazione (appendicite, marzo 2017, ndr) per diverso tempo non è riuscito ad allenarsi al meglio, soprattutto non eseguiva con naturalezza la torsione del busto. Per lui quella zona è fondamentale, perché la dinamica dei suoi colpi sollecita molto gli addominali e il tratto lombare“. Thierry parla come se seguisse Gasquet da anni, e non appena da tre mesi. Il ruolo di coach però è la sua seconda pelle e ha abbastanza esperienza da considerare futili i proclami di classifica. “La top 10 può essere un obiettivo, certo, come anche vincere quei trofei – ATP 500 o Masters 1000 – che non è mai riuscito a vincere. Ma un tennista di quasi 32 anni che viene da un infortunio deve pensare prima di tutto a una cosa: a stare bene fisicamente, e il resto verrà da sé“. Aleggia la sensazione che il maestro stia sottovalutando i difetti ‘cronici’ del suo allievo, che in effetti fino ad ora quell’ultimo passo non è mai riuscito a farlo e non può mica essere un caso. “No, no. Richard ha ancora un settore dove può e deve migliorare ed è il servizio. Ancora più della sua posizione in campo. Lavorare sul servizio è l’altra grande priorità“.
Servizio e condizione atletica, slice esterno e reattività di piedi. Prerogative buone più o meno ovunque, ma sulle superfici veloci probabilmente di più. Il discreto rendimento da ottobre ad oggi – tre quarti consecutivi tra Tokyo, Shanghai e Vienna, il terzo turno a Melbourne perso contro Federer e la finale di Montpellier – lascia quasi pensare che i training del duo Santoro-Tulasne stiano aiutando Gasquet a fronteggiare i ritmi di gioco più rapidi del cemento, outdoor e indoor, che sanno essere problematici per chi prepara i colpi con tanta meticolosità e ha la tendenza a sostare dietro la linea di fondo campo. Stringi stringi, Richard ha raggiunto diciotto finali (su ventinove complessive) su superfici rapide, con nove titoli conquistati. Non sarà che alla fine gioca meglio qui? “No – assicura Tulasne – Richard è comunque più a suo agio sulla terra (superficie su cui ha conquistato tre titoli, ndr). Per il modo in cui attende i colpi, per la preparazione, per gli spostamenti. Giocherà interamente la stagione su terra, a partire da Montecarlo o forse addirittura Marrakech”. Sarà, ma alla fine sono stati Londra (due volte) e New York i teatri Slam delle sue tre semifinali. A Parigi appena un quarto, nel 2016.
A questo dubbio se ne aggiunge un altro, forse più cruciale. Dopo aver visto Gasquet palleggiare ad alta velocità su ambo le diagonali, per lo più da fermo come quel tipo d’allenamento richiede, ci si chiede come possa tanta naturalezza e tanta esplosività – perché il rovescio di Gasquet picchia quanto un dritto inside-out, e non lo teme nel braccio di ferro – non tramutarsi in un tennis più capace di dominare l’avversario. La risposta arriva dopo aver visto allenarsi per lo stesso tempo, ma impegnati in esercizi di movimento, due come David Goffin e Gilles Simon. Che di esplosività ‘pura’ ne producono poca, ma appena li vedi colpire in corsa capisci. Capisci la differenza tra l’esposizione di un rovescio pur meraviglioso e la sua effettiva resa in una partita in cui ogni 15 si gioca su un piano cartesiano, movimenti orizzontali e verticali, sulla palla devi arrivarci tu e non c’è nessuno che si preoccupa di recapitartela nel modo a te più congeniale. Anzi, se è possibile colpirà in modo da renderti complicato controbattere.
Richard Gasquet è un tennista a rovescio perché forse non ha mai realizzato appieno quanto il tennis sia diventato sempre più una faccenda di rincorse forsennate e sempre meno un’esposizione di opere d’arte. Lui gira per il circuito con quel rovescio chiuso in una teca di vetro, sempre mirabilmente uguale a se stesso, e lo espone più di quanto riesca davvero a vincerci le partite. E chi siamo noi per lamentarcene?