Le due minacciose aquile gemelle stampate sul petto e sul dorso della sua maglietta Mizuno erano tutto un programma. La sconfitta rimediata nella finale di Melbourne al cospetto di Boris Becker non aveva scalfito più di tanto le granitiche certezze di Ivan Lendl. È vero, l’ex terribile era incappato in un clamoroso passo falso a Milano contro il giovane Caratti, ma una sola settimana di riposo tra le fatiche australiane e l’inizio della stagione indoor era parsa davvero poca anche per un duro come il nativo di Ostrava, ora in attesa di un passaporto a stelle e strisce. Infatti, con qualche ora di sonno in più, Lendl aveva sorvolato Pennsylvania e Tennessee incamerando in successione i trofei di Filadelfia e Memphis per poi riattraversare l’oceano e atterrare a Rotterdam in cerca del poker di tris, se ci è concesso il gioco di parole. Gli era infatti già successo altre tre volte, in carriera, di vincere tre tornei in altrettante settimane consecutive. Dieci anni prima, nel 1981, aveva addirittura esagerato infilandone ben cinque (Madrid, Barcellona, Basilea, Vienna e Colonia) tra settembre e ottobre; poi ci era riuscito nell’85 (Fort Myers, Montecarlo e Dallas) e nell’87 (Washington, Stratton Mountain e Montreal).
La classica giornata in cui il favorito di un torneo rischia la pelle Ivan l’aveva già vissuta nei quarti contro lo svizzero di Praga Jakob Hlasek. E l’aveva superata. Ecco perché, pur con tutta la buona volontà, il compito dell’altro finalista della 19esima edizione del torneo olandese si presentava tutt’altro che semplice. Poi, uomo di memoria inossidabile al pari del suo gioco, Lendl aveva un conto in sospeso da sette anni con l’Ahoy Arena ed era seriamente intenzionato a chiuderlo. Erano state bombe (di dritto, di rovescio nonché di servizio) per sette giochi, domenica 18 marzo 1984, ma quella annunciata dall’anonima telefonata di un appartenente a un non ben specificato movimento anticapitalista alla polizia olandese ebbe l’effetto di interrompere la lezione che Lendl stava impartendo a Jimmy Connors e far evacuare l’impianto. A nulla valsero, più tardi, le rassicurazioni di Wim Buitendijk quando si ebbe la certezza che si era trattato di un falso allarme; con il pubblico di nuovo assiepato sugli spalti e Jimbo persuaso a riprendere, Ivan – che era avanti 6-0, 1-0 e servizio – non se la sentì di rischiare e il titolo non venne assegnato.
Edificata nella sua attuale forma nel 1970, l’arena sportiva (e non solo) di Rotterdam era in realtà sorta in quello che da vent’anni era il centro fieristico ed espositivo della città, quasi interamente ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda Guerra. Con l’architettura metallica che intendeva riproporre il flusso dell’acqua – anche in memoria della terribile alluvione del Mare del Nord che costò la vita, nel 1953, a quasi due mila cittadini olandesi – l’Ahoy divenne la sede stabile del torneo patrocinato fin dalle fondamenta dall’istituto di credito ABN AMRO. Come detto, dal giorno del finto attentato Ivan Lendl non era più tornato a Rotterdam e c’era da giurarci che non avesse mai del tutto digerito quel titolo mancato. In quel settennato la sua vita era cambiata e non poco, proprio a partire da quel 1984 tanto caro a Orwell e che gli storici del tennis ricordano come la stagione memorabile di John McEnroe, relegando una volta di più l’antipatico Ivan al ruolo non sempre meritato di guastafeste. Al Roland Garros, sopportando per un tempo che doveva essergli parso infinito l’ostentazione di genio tennistico del mancino americano, Lendl si era finalmente tolto l’abito di predestinato alla sconfitta che in molti già gli avevano cucito addosso dopo un paio di US Open (82/83) lasciati nelle mani di Connors. E l’aveva fatto risalendo la china di un match quasi impossibile, indietro nel punteggio e nel morale, abbeverandosi alla fonte delle proprie debolezze che stava progressivamente tramutando in certezze.
Ebbene, per qualche stagione Lendl in marzo aveva preferito rimarsene negli amati Stati Uniti, pianificando diversamente l’attività ora che era diventato il padrone delle ferriere per 237 settimane interrotte solo dall’acuto di Wilander nel 1988. Ora però il nostro, scavalcato da Edberg e Becker, doveva rincorrere e per tornare in vetta aveva intensificato l’attività. Con il suo avversario di quel 3 marzo 1991, Ivan ci aveva giocato in precedenza una sola volta. Era successo un anno prima all’indoor di Stoccarda ed era stato un primo turno agevole, risolto 6-4 6-2. Pur vantando già qualche vittoria eccellente nel circuito, negli ultimi tempi Omar Camporese – è lui il nostro leone di febbraio – aveva fatto parlare di sé per due rocambolesche sconfitte con l’attuale numero uno del mondo, il tedesco Boris Becker. Sia a Melbourne che in Coppa Davis, sul sintetico di Dortmund, l’italiano aveva fatto paura a Bum Bum, l’aveva spinto al limite del quinto set: recuperandone due in Australia e giocandosela fino al 12-14 del quinto, portandosi invece sul 2-0 in Germania nel quarto incontro di una sfida in cui aveva già sconfitto Stich in singolare e, insieme a Nargiso, portato in dote il punto del doppio contro lo stesso Becker e Jelen.
Imprese sfiorate che, molto spesso, anziché rafforzare indeboliscono. Fiaccano. Non Omar, bolognese di quasi 23 anni, tutto servizio e dritto a sventaglio, quando i piedoni piatti gli consentono di colpirlo girando attorno alla palla, con il gomito forse troppo vicino all’anca nella preparazione del rovescio a una mano, invero stilisticamente assai pregevole. A Rotterdam Omar ha avuto un tabellone agevolato dalle eliminazioni precoci di due teste di serie. Il n°2 Muster si è fatto beffare nel derby dal connazionale Antonitsch, avversario dell’italiano al secondo turno, mentre nei quarti anziché Ivanisevic e Svensson ci sono il casalingo Haarhuis e Bergstrom. Insomma, pur essendo il 42esimo tennista secondo il computer dell’ATP, uno solo dei quattro avversari di Camporese ha una classifica migliore della sua ma si tratta del ceco Karel Novacek, più a suo agio sulla terra rossa che sui tappeti sintetici. Anche se l’Italia del tennis aspetta un titolo lontano dalla terra rossa da quasi un decennio, ovvero quando Gianni Ocleppo sconfisse Edmondson sul cemento di Linz, Camporese non è certo il tipo da sentirsi addosso la pressione di un’intera nazione. Piuttosto, avrebbe preferito che coach Piatti fosse lì con lui anziché in America al seguito di Caratti, ma ha cercato di farsene una ragione e adesso è lì, come si dice “senza nulla da perdere” contro il terzo giocatore del mondo.
La superficie della Ahoy Arena è nemica degli scambi prolungati e questo potrebbe favorire l’italiano, più predisposto all’uno-due che al ritmo. L’atmosfera è fredda e Lendl non ha alcuna intenzione di scaldarla; sono suoi i primi tre punti della finale, contro il servizio, e il recupero dell’italiano si ferma a un passo dal traguardo con il dritto fuori misura che costa il break. Peggio di affrontare Lendl c’è solo affrontarlo partendo con l’handicap. Quando può fare gara di testa, il cecoslovacco ormai statunitense acquisisce ulteriore fiducia e diventa spietato come Sentenza, il cattivo Lee Van Cleef di uno dei western più belli di Sergio Leone. Ivan mostra tutt’altro che sorprendente autorevolezza nei turni di servizio ma Camporese ha il merito di non disunirsi e restare in scia. Ecco allora che, all’improvviso, nell’ottavo gioco Lendl è in difficoltà, costretto a rincorrere i colpi al volo di Omar che lascia vivo il punto appoggiando una volée di rovescio, piazzando uno smash in sicurezza per poi inventarsi uno schiaffetto di dritto che prelude alla volée vincente del 15-30. Anche se alla fine l’italiano ammetterà di non aver mai avuto un piano preciso, non è certo dal rovescio che si aspetta la profondità con cui potrebbe rimettere in sesto la frazione. Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo quando si parla di fuoriclasse e allora, dopo aver incassato l’attacco della doppia palla-break, sul 15-40 Ivan arpiona in disperata difesa un rovescio lungo linea di Camporese che aveva tutte le sembianze del vincente e a quel punto, sopita l’inerzia, il prolungarsi del palleggio finisce per attenuare l’italica baldanza, spenta nell’errore che allunga i suoi tentacoli anche nel punto successivo, quello del 40-40.
Finisce lì, su quel dritto in rete forzato dal pressing di Lendl, l’illusione di rimediare in extremis alla falsa partenza. Non solo: un altro break, chiuso dalla risposta, consente al primo favorito del torneo di iniziare con la battuta anche la frazione che segue. Ivan Lendl è tutto un tic; accomoda di continuo le enormi polsiere Mizuno, quando è al servizio rimescola tra le mani le palle per poi depositarne una nella tasca non prima di averle tolto inesistenti peletti che evidentemente disordinano il feltro, mentre con l’altra mano ha provveduto a lisciare l’impugnatura rosa della sua Adidas con abbondante segatura. Il campione gestisce al meglio il tempo, lo plasma alla sua volontà e controlla tutto ciò che lo circonda con il consueto cipiglio severo. La qualità della contesa è più che buona, pur nell’ambito della scarnificazione di un gioco che, quando entra la prima di servizio, diventa pelle e ossa. Lendl alterna le rotazioni del rovescio all’interno di un ragionamento tattico, Camporese quasi esclusivamente per necessità. Otto giochi nel secondo set senza sussulti ma il nono ripaga l’attesa con i fuochi d’artificio ed è Camporese ad accendere le micce. Lo fa risalendo da 40-15 ed è sempre il bistrattato rovescio a dargli soddisfazioni inaspettate; il passante incrociato in back mette a nudo le incertezze del rivale nei pressi della rete ma gli ultimi due punti sono tutti del dritto.
Omar serve avanti 5-4 per portare Lendl al terzo ma il cambio campo, con annessa sosta di riposo e di pensieri, non gli è amico, gli sequestra la prima e l’unica volta che la piazza Ivan blocca il polso e impatta una risposta di pura opposizione talmente incrociata e bassa da diventare imprendibile. Sotto di un quindici (30-40), Camporese cerca fortuna attaccando ma i tempi della sortita non sono quelli giusti e viene giustiziato dal passante di Lendl. Affranto, Omar scuote la testa e avvia un soliloquio breve come il game tenuto a zero da Ivan, che mette tutto il suo carisma al servizio del successo. Ma questo, l’avrete capito, non è un pomeriggio olandese qualsiasi. Piuttosto è uno di quei pomeriggi in cui le cose, anche le più impensabili, possono diventare realtà. Con il gradito ritorno della prima di servizio, Camporese si guadagna il tie-break ed è lì, in uno dei terreni preferiti dal suo avversario, che gestisce al meglio il mini-vantaggio iniziale di un punto in risposta portandosi 3-0 e mostrando anche qualità di buon difensore, mentre Ivan scaglia la sua Adidas sul tappeto della Ahoy Arena e si merita i fischi che arrivano dalle profonde oscurità degli spalti. Il mini-break serve soprattutto a reggere l’urto della reazione che si concretizza nel settimo punto, quando un rovescio senza pretese di Camporese conclude la sua maldestra corsa in rete.
L’italiano è ancora in vantaggio (4-3) quando il fiume in cui scorre la partita decide di cambiare il suo corso. La splendida “x” disegnata dal dritto in cross a uscire doppiato con il rovescio a tutto braccio nell’altro angolo rimette distanza tra l’italiano e il suo rivale, così che Omar ora può gestire due servizi per allungare la sfida (5-4) al terzo. Dopo una prima vincente (6-4), nel punto seguente Camporese si vede recapitare un rovescio – steccato per tre quarti da Lendl – che però atterra sulla riga di fondo e permette al cecoslovacco di prendere il centro del ring e attaccare sul colpo seguente. Il pubblico, finalmente investito nella parte, si fa scappare qualche gridolino e turba la concentrazione di Lendl nell’atto di spingersi a rete ma Camporese è sotto una campana di vetro e lascia partire un passante incrociato sul quale Ivan arriva solo abbozzando una demi-volée che gli resta sulla racchetta: 7-6 Omar e si va al terzo, con Lendl furibondo che ha un diavolo per capello e fa sentire le sue ragioni al supervisor del torneo.
Non appena torna la normalità e Camporese esce dalla nuvoletta in cui ha beatamente galleggiato negli ultimi dieci minuti, il fiume ritrova il corso primigenio e il break ottenuto in apertura di terzo set rilancia le quotazioni della prima testa di serie che concederà appena due punti in quattro turno di battuta, arrivando così a condurre 5-3. Ma una volta ancora il grande merito di Omar è quello di non abbattersi e aspettare l’occasione buona, se mai ci sarà. Nel decimo gioco, Lendl serve per il titolo e l’ace numero 12 lo porta a un solo quindici dal titolo numero 91 in carriera (40-30) e di nuovo il mormorio del pubblico sulla sua seconda dentro (forse) di un paio di millimetri lo accompagna mentre esegue il rovescio in back che sfila in corridoio di altri millimetri. Di nuovo infuriato con tutti, Lendl si ricompone e piazza un servizio vincente per il secondo match-point che gioca con la furbizia tattica di Wilander, ovvero seguendo a rete la battuta per sfruttare l’effetto sorpresa. Mal gliene incoglie, tuttavia, poiché la risposta di rovescio di Camporese è robusta e la volée del terzo giocatore del mondo plana oltre il fondo.
Come in una regata della America’s Cup, siamo all’ultimo giro di boa e stavolta il vento soffia alle spalle di Camporese che si fa aiutare dal nastro per una prima palla-break e pizzica la riga in risposta per la seconda, stavolta sì convertita dal nostro leone di giornata con un attacco deciso osannato dal pubblico, al quale Lendl non risparmia le sue furibonde invettive: 5-5, che diventerà 6-6 e quindi altro tie-break. I primi tre punti sono contro la battuta e due brutti errori cecoslovacchi mandano Omar in testa 2-1; Ivan pareggia (3-3) ma sbaglia ancora l’impossibile e permette a Camporese di portarsi sul 6-3. Il bolognese giocherà sul suo servizio solo l’eventuale terzo match-point ma nel secondo Lendl commette l’ultima sciocchezza di giornata accarezzando a rete una comoda palla alzata dalla risposta di Camporese e lasciando che Omar la raggiunga in disperato recupero e la collochi nell’altrui metà campo, prima di inginocchiarsi incredulo per la vittoria.
“Avrei voluto vincere, è ovvio, ma i punti importanti li ha fatti lui che ha mantenuto un livello di gioco molto alto. A volte vinci annullando match-point, altre volte perdi dopo averli avuti. Questo è il tennis”. Così Lendl dopo il match. Camporese vincerà un solo altro titolo, nel 1992 a Milano battendo Ivanisevic, e legherà alla Coppa Davis alcuni momenti memorabili della sua carriera condizionata da troppi infortuni. Nel 1992 (a Bolzano) e nel 1997 (a Pesaro) sarà la Spagna il suo terreno di caccia preferito con sei vittorie decisive in altrettanti incontri: Bruguera, Emilio Sanchez, Moya e Albert Costa in singolare; Casal-E.Sanchez e Roig-J.Sanchez nel doppio in cui lo spalleggia Diego Nargiso. Quello di Pesaro è l’ultimo squillo di un giocatore scivolato ormai ai margini del circuito, oltre il 150° posto del ranking. Ci riproverà in semifinale, ma a Norrkoping Bjorkman (da solo e in coppia con Kulti) gli impedirà l’ultimo acuto.