A lei, che non voleva salire sul piedistallo, verrà dedicata una statua. Per indubbi meriti sportivi. Ma anche perché, nonostante non avesse mai voluto battere la grancassa delle istanze afroamericane, nei caldissimi anni ’50 divenne il grimaldello che scardinò la società del benpensantismo, molto ben rappresentata dal mondo del tennis. Quel microcosmo a tenuta stagna di cui lei, la hall of famer Althea Gibson, fu la prima regina non bianca. Grazie a una determinazione pari a una potenza atletica per cui veniva accomunata agli uomini. La USTA ha annunciato che dedicherà alla grande campionessa statunitense una statua nell’impianto di Flushing Meadows. Il comunicato non contiene ulteriori dettagli sulle tempistiche di realizzazione dell’opera. Né su chi ne sarà l’autore, il cui nome uscirà da un concorso che verrà bandito a breve. Cosa avrebbe detto la diretta interessata, se non fosse venuta a mancare 15 anni fa, nello svelare il monumento a lei dedicato? Probabilmente ne sarebbe stata felice. Ma sappiamo anche che era capace di una feroce concretezza. La stessa che la fece optare per il tennis professionistico – a quei tempi, il circuito degli appestati – perché “la corona riservata alla numero 1, per quanto bella, non si mangia”. E, quindi, è probabile che il fatto in sé non l’avrebbe esaltata, come probabilmente non avrebbe spostato più di tanto la consapevolezza di una grande campionessa, la prima afroamericana a giocare (e vincere) un torneo dello Slam.
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In fondo, tutto ciò che voleva era essere qualcuno. Una persona di “ragionevole successo, con tutto ciò che tale status comporta”. Sin da quando, piccolina, si fece notare nei playground di Harlem. Il suo talento e l’atletismo ante litteram non potevano passare inosservati. E nonostante i pregiudizi, le invidie e persino il fastidio di chi voleva il tennis relegato in una piccola enclave sociale, rigorosamente bianca, legata a vecchi riti di stampo cavalleresco, Althea venne ammessa ai tornei che contano. Certo, per lei che ebbe “la colpa di essere nata troppo presto”, la strada fu più tortuosa rispetto alle atlete coeve di pari caratura sportiva. Sarebbe stato ovvio, prima ancora che giusto, evitarle il passaggio per le forche caudine del circuito riservato agli afroamericani, dominato in lungo e in largo. Ma così non fu. Solo l’intercessione dell’ex numero 1 Alice Marble, che scosse le coscienze e il buonsenso dell’establishment tennistico, le fruttò uno storico invito ai campionati nazionali, nel 1950. Dando così la stura a una strepitosa carriera. La livella dello sport, il luogo in cui vige la tirannide del merito e “si viene accettati per quello che si fa e non per quello che si è”, fece il resto.
E così, la ragazza che sugli autobus della nativa South Carolina non era libera di sedere dove voleva arrivò a stringere la mano a Elisabetta II, e ad aggiudicarsi, prima coloured della storia, un torneo dello Slam. I Championships e gli adorati US Open per ben due volte, (1957-58). L’anno prima, battistrada per destino se non per vocazione, Althea aveva vinto il suo primo major, il Roland Garros.
Nel ’58, al culmine di una carriera arricchita dai 56 trofei in bacheca – fra cui gli Internazionali d’Italia – ma ancora alla ricerca di tangibili rassicurazioni economiche, la smaniosa figlia di un mezzadro si decise a saltare la barricata. Raggiunse coloro che avevano tradito lo sport amatoriale. Un’altra stagione da segregata, ma stavolta consapevole. Sarebbe tornata ai court che contano, finalmente open, ormai troppo vecchia. Prima e dopo, tante esperienze. Nello sport, anzi, negli sport, visto che fu anche golfista. E nella musica, altro suo talento. Da vera entertainer, non disdegnò sortite eterogenee, come comparsate televisive e cinematografiche. Ma anche un tour in cui fungeva da traino agli Harlem Globetrotter.
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Secondo Billie Jean King, altra vestale dello sport e dei diritti delle minoranze, Althea è “uno dei tesori degli Usa. Con il suo esempio, ha fatto capire alle generazioni future di atleti – senza distinzioni di sesso e background – che si può vivere di tennis. Spero che possa continuare a ispirare i ragazzi, oggi come domani”. Una lezione che travalica le barriere dello sport. Dicendoci che i muri, prima o poi, cadono.