La morte della sorella Yetunde, assassinata per errore a Compton da un proiettile esploso da un membro dei Crips e diretto al fidanzato, e la depressione e gli infortuni, e la sindrome di Sjogren e l’embolia polmonare, e le avventure imprenditoriali e lo Yetunde Price Resource Center in quella stessa Compton per assistere le famiglie vittime di violenze e traumi, e il matrimonio e il parto, travagliato, e l’incidente in auto. E ancora, ventisette titoli Slam in singolare e undici in doppio, e tre ori olimpici e novantasette titoli nel circuito, e più di trecento settimane al numero uno e altre ventitré partite l’una contro l’altra. E diciassette anni.
Tanto è passato nella vita di Serena e Venus Williams dalla non-partita del 2001 di Indian Wells, che ne determinò il boicottaggio per i successivi quattordici anni. E tanto è stato scritto e raccontato, che diventa un’impresa particolarmente ostica quella di dire qualcosa di nuovo, alla vigilia della ventinovesima sfida tra sorelle. E allora mi limiterò a toccare solo la storia più recente, oltre a quella avvenuta nel deserto californiano quasi vent’anni fa.
Le vicende di marzo 2001 restano tuttora delicate da ripercorrere perché toccano un nervo teso della società americana che, se all’epoca al lettore italiano o europeo poteva sembrare forse anacronistico, si è ora esteso anche al nostro continente: cosa è tacciabile di razzismo. Ripercorriamo i fatti: il quindici marzo è in programma la semifinale tra Serena e Venus. Le due hanno lasciato la miseria di tre giochi l’una alle avversarie nei quarti di finale: Dementieva per Venus e Davenport per Serena. Venus era all’epoca quella più di successo in famiglia: aveva già due Slam contro uno di Serena, aveva vinto l’oro olimpico ed era numero tre al mondo, quattro posti più su della sorella, e aveva prevalso in quattro dei cinque confronti diretti.
L’ingombrante presenza del padre Richard, che rappresentava una figura peculiare nel mondo prevalentemente posh tennistico, faceva storcere il naso a molti, certi che una sua parola decidesse l’esito degli incontri tra le figlie. Le accuse, nemmeno troppo velate e avallate da una parte della stampa, erano di combine: a decretare la vincitrice non era il campo ma Richard, in base a quale delle due ne avesse più bisogno, o avesse le maggiori possibilità di vittoria al turno successivo.
Il quattordici marzo, nella conferenza stampa successiva alla sconfitta con Venus, Elena Dementieva contribuisce a scaldare gli animi: “Chi vince domani? Non so che ne pensi Richard, ma credo sarà lui a decidere chi vincerà.” (Dementieva dirà poi la settimana seguente che la sua riposta fosse solo una battuta, e che non pensasse davvero che Richard giocasse a fare il burattinaio). Tanto bastò a far riaffacciare le accuse della stampa di partite-farsa tra sorelle.
Il giorno dopo accade l’irreparabile: tre minuti prima dell’inizio dell’incontro, l’organizzazione del torneo annuncia il ritiro di Venus per una tendinite. Serena è in finale senza giocare. Venus dichiarerà poi di aver notificato gli organizzatori del ritiro ben prima del comunicato data al pubblico, ma la furia si è già abbattuta sul clan Williams, reo di aver fatto simulare l’infortunio a Venus. Perché però, secondo la logica per cui i precedenti incontri fossero stati già comunque decisi a tavolino, questa volta avrebbero dovuto decidere di organizzare la combine in maniera così palese e goffa è difficile a capirsi.
Il diciassette marzo si gioca la finale: Serena contro un’altra giovane di belle speranze, Kim Clijsters. I quindicimila posti a sedere sono tutti occupati. L’entrata di Serena in campo è accompagnata da un coro di boo, così come quella sugli spalti di Venus e Richard, che di tutta risposta alzerà il pugno, in un gesto evocativo delle lotte razziali di qualche decennio prima. Il pubblico farà un tifo fanatico per Clijsters per tutta la durata dell’incontro, vinto da Serena in rimonta in tre set. I boo accompagnano Serena fino al punto finale: i suoi doppi falli sono accolti da applausi, così come i suoi errori gratuiti. L’allora diciannovenne Williams passerà le ore successive nello spogliatoio a piangere, descrivendo poi l’esperienza come “uno dei momenti più brutti della mia carriera”.
Richard dichiarò di aver ricevuto epiteti razzisti nei suoi confronti e minacce di morte: “Se fossimo ancora negli anni ’70, ti scorticheremmo vivo”. Il torneo però non registrò nessuna di queste accuse, né alcuno degli spettatori si fece avanti per denunciare atti razzisti. È qui quindi che si divide l’opinione pubblica tra chi crede che i boo fossero motivati dal colore della pelle delle Williams, e chi invece sostiene che derivassero dalla frustrazione nel ritardo nell’annuncio dell’infortunio di Venus e nella convinzione che la partite fossero controllate da Richard.