“Il tennis e i merletti. Sono stata divina malgrado i maestri” (Gianni Mura, La Repubblica – Il Venerdì)
«Il tennis, certo, e poi il golf. Sempre a rincorrere una pallina. Mi sa che nella vita precedente ero un cane». In questa vita, difficile racchiudere Lea Pericoli in poche parole. Indro Montanelli, amico di suo padre Filippo, la definì un coniglio coraggioso. «Andavano insieme a caccia di lepri, in Etiopia». Fu Montanelli a volerla cronista di sport, e poi di moda. «Sul primo numero del Giornale c’è la mia firma in prima pagina, ne sono orgogliosa. Ricordo che portai il pezzo a Carlo Grandini, capo dello sport. Era un foglio battuto a macchina sui due lati. Prima di leggerlo mi disse: “Guarda che due fogli ce li possiamo permettere”. E mi è sembrato di tornare bambina, quando i diari li scrivevo solo sulla pagina di destra». Poi la conclusione amara: «Diventa direttore Vittorio Feltri, mi convoca e mi dice: da domani lei non è più collaboratrice di questo giornale. Cosi, secco. Mi ha fatto male la mancanza di una spiegazione, dopo tanti anni credevo di meritarla».
Nel suo “500 anni di tennis”, Gianni Clerici scrive che nell’ambiente più o meno tutti erano innamorati di lei, ma non è stata una campionessa. «È vero. Sono stata una buona tennista rovinata nel momento migliore. Contro quelle pari grado o inferiori vincevo, contro quelle più forti perdevo. ma qualche soddisfazione me la sono tolta. “Coniglio coraggioso” ci può stare: una volta ero sotto 0-6, 0-5 e sul 30 pari ho pensato: se faccio questo punto vinco l’incontro. E l’ho vinto, era una finale di campionato italiano con Lucia Bassi. La soddisfazione è aver battuto cinque vincitrici di un grande slam: Shirley Bloomer, Karen Susman, Ann Haydon, Françoise Dürr e Billie Jean King. Mi ha rovinata Dinny Pails, australiano, alle sue lezioni mi aveva mandato la federtennis. Prima, giocavo un tennis istintivo, molto aggressivo. Pails mi ha cambiato l’impugnatura e costretta a diventare specialista di pallonetti. Non avevo l’età per ribellarmi, mi sono adattata a giocare un altro tennis. Clerici scrisse pezzi di fuoco, sostenendo che Pails era un asino, un cane testardo di nessuna utilità. Niente da fare. Non l’ho odiato, odiare costa fatica. Del tennis, a quei tempi, mi affascinavano soprattutto i viaggi, perché guadagni non ce n’erano. Voli notturni per spendere di meno, pensioncine da pochi soldi. A Wimbledon, oltre al ticket per la prima colazione, avevamo diritto al macchinone che ci portava dall’albergo ai campi. Per il resto ci arrangiavamo».
Per le tenniste carine, un modo di arrangiarsi era accettare inviti a cena da sconosciuti ammiratori, e dopo cena arrivederci e grazie. «Eravamo a Londra, dico a Lucia Bassi che avevo rimediato un invito per due e lei mi fa: non m’interessa, sono una ragazza che ha dei principi. E io sono una ragazza che ha fame e ci vado anche da sola. Era così anche per gli uomini, anche se non tutti. Pietrangeli sì. Ma con una strategia. In Francia, per esempio, aspettava che quelli con più quattrini, tipo Gardini e Merlo, si accomodassero al ristorante e si presentava al tavolo quando avevano già iniziato. Si accomodava, il cameriere portava un altro menù e Nicola diceva: no, grazie, ho già mangiato. E poi, a Gardini o a Merlo, chiedeva in continuazione di ordinare pane e burro, e via così. Non avrebbe inciso sul loro conto, ma sul suo stomaco sì». Lea Pericoli ha scritto quattro libri. Ha scritto di tennis, «e molti agli inizi mi chiedevano: di’ la verità, i pezzi chi te li ha scritti? Sottinteso: non puoi essere stata tu. Roba da arrabbiarsi, ma ho sempre cercato di vedere nelle cose il lato positivo. Se c’erano questi dubbi, dovevano essere pezzi decenti. Ho avuto la fortuna di scrivere di moda proprio negli anni del boom per il prêt-à porter, di stringere amicizie durature come quella con i Missoni. Sono stata la prima donna a commentare il tennis, senza seconda voce. Con Wimbledon alle porte, avevo firmato un contratto con Tsi, la tv della Svizzera italiana, ma dopo qualche giorno si fa viva madame Cauvigny di TeleMontecarlo. Mi vuole, mi convince. Gli svizzeri sono molto comprensivi, non creano problemi. Il problema è mio: dovrò avvertire Rino Tommasi e Gianni Clerici, due amici già sicuri dell’incarico, che il posto invece è mio. Ecco, per chi vuole risparmiare a Wimbledon la casa di Gianni è il posto ideale. Una bella villa con giardino, in centro».
Da Wimbledon alle mutandine rosa il passaggio è inevitabile. «Lo so, e comunque non me ne vergogno. Era il mio esordio a Wimbledon, in precedenza mi aveva avvicinata Ted Tinling, ex colonnello dell’esercito, gay, lui alto alto, aveva un fidanzato piccolino e malinconico. Disegnava cravatte, camicie, abbigliamento sportivo un po’ bizzarro. La sua prima tennista-modello era stata Gussie Moran, mutandine panterate. Avevo visto la sua foto quand’ero a Nairobi, nel convento di suore in cui stavo». Quando parla d’Africa ha una luce particolare negli occhi. Non a caso uno dei suoi libri s’intitola “Maldafrica” e in Africa torna ogni anno, almeno un mese. In Kenya, perché Etiopia ed Eritrea sono diventate mete a rischio. Infanzia avventurosa. Padre con molto fiuto per gli affari, due volte straricco grazie alla coltivazione di banane, concessionario di Fiat, Om, Olivetti, Piaggio, due volte costretto a ricominciare da capo.
Il tennis di quegli anni è un mondo chiuso, di rigore il bianco («ma io lo vorrei anche adesso, solo il bianco»), donne con gonne abbastanza lunghe, o con sottana-pantalone, movenze aristocratiche. Tinling e le sue tenniste-mannequin buttano il sasso nello stagno. Lea si presenta in sottogonna di tulle rosa, mutandine rosa e calze rosa. I fotografi impazziti, il pubblico diviso. «I fotografi mi distraggono, vinco facile il primo set con una spagnola che mi è inferiore, poi mi blocco e sono eliminata. Peggio, mio padre mi proibisce di continuare col tennis. Il clamore non gli è andato giù. Quelle mutandine, quella gonna di cui hanno misurato la lunghezza più volte, ma era nelle regole, meno nelle regole semmai le mutandine, è tutto esposto al Victoria Albert Museum di Londra, come altri capi che più tardi Ted mi fece indossare: un gonnellino di visone, uno di penne di cigno, un abitino di petali di rose, un pigiama di pizzo, in Sudafrica perfino un vestitino d’oro con le mutandine di brillanti. Vorrei chiarire che questi costumi stravaganti, a volte eccessivi, li indossavo solo per le gare facili. Se c’era da soffrire, tenuta bianca classica. Ho cominciato con Ted perché mi divertiva e perché in Italia era molto diffusa l’idea che lo sport trasformasse le donne in muscolose virago senza grazia. Ho fatto una scelta dalla parte delle donne».
Ne ha fatta anche un’altra: quella di rendere pubblico il tumore che l’aveva colpita al collo dell’utero. «Sì, fu decisiva la spinta del professor Veronesi. In quegli anni si faticava anche a nominarlo, era “il male inguaribile”, da tener nascosto. Sei mesi dopo l’intervento chirurgico vincevo il campionato italiano e Veronesi diceva che quel risultato valeva cento conferenze, che con una diagnosi precoce, era il mio caso, si continua a vivere. Era il ’73, mi pare. In quella campagna ci ho messo la faccia e il cuore. Quattro anni fa ho avuto un problema di salute ma non l’ha saputo quasi nessuno. Molte donne di una certa età quando vado a fare la spesa in tram mi sorridono e mi salutano e questo mi rende felice. Ho un carattere che mi porta a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Ho avuto una vita meravigliosa e ogni giorno la ringrazio. Ho avuto tanti amori importanti, anche dolorosi, e vivo da sola, ma convivo bene con me stessa, mi parlo e mi rispondo. E ho tanti amici. Nicola dice che solo i cretini non hanno rimpianti, sarò cretina ma non ne ho». Le piace questo tennis? «Non è il mio, i racchettoni hanno cambiato tutto, puoi fare quello che vuoi. Con le racchettine di legno eravamo meno potenti e più tecnici. Meno male che c’è Federer, che sfiora la perfezione: è bello, simpatico, molto impegnato nel sociale e, dettaglio fondamentale, pensa tennis come uno dei nostri tempi e lo gioca con i mezzi e gli avversari di oggi. Promette bene Alex Zverev, se non si rovina. In generale, oggi sono tutti badilanti senza fascino, pensano solo ai soldi. Ma lo sa che c’è chi ha chiesto dei soldi anche per giocare in Davis? In Italia per trovare un vero campione occorre risalire a Nicola e, un po’ più giù, a Panatta. Nicola è l’uomo più pigro e affascinante che abbia conosciuto. Ho scritto io la sua biografia perché era troppo pigro per scriverla lui. Le ragazze, invece, ne hanno fatta di strada. Vedere Pennetta-Vinci in finale di un grande slam è stata un’emozione forte». Da giocatrice la chiamavano la Divina, ma la sua bellezza, l’eleganza, la volontà sono molto terrene. Uscendo, resto attratto da un quadro sulla parete di sinistra. Bello, chi l’ha dipinto? «Io. Ne ho dipinti una sessantina in un solo inverno per superare una crisi». Che stupido a chiedere. Dovevo immaginarmelo.
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