Sono passati tre anni e un paio di mesi dal trionfo australiano di Simone Bolelli e Fabio Fognini, la prima coppia italiana a vincere uno Slam addirittura dal 1959 (Pietrangeli-Sirola). Quando capita di rivederli anche solo allenarsi insieme è inevitabile tornare con la mente a quel torneo perfetto, che fece sognare il tennis azzurro con speranze di vedere il tricolore protagonista almeno in doppio. Il resto del 2015 proseguì con il duo italico finalista in tre Masters 1000, il best ranking come ottava coppia mondiale e la partecipazione alle Finals di novembre, ma per stessa ammissione di entrambi “non avremmo proseguito se non avessimo vinto a Melbourne”. Il singolare è sempre rimasto la priorità: Bolelli troppo spesso alle prese con guai fisici che gli hanno impedito di migliorare il 36 ATP del 2009 (l’anno prima l’unica finale in carriera, persa con Gonzalez a Monaco). E Fognini sempre a un passo dal fare il vero salto di qualità, dall’approdo in top ten, dall’exploit in un Major, nonostante i progressi sensibili degli ultimi anni, anche e soprattutto sul cemento (semifinale a Miami lo scorso anno).
Due strade che si sono spesso intrecciate ma mai più così vicine come a Melbourne, anche a causa di un programmazione diversa considerato il divario di classifica. Due personalità non simili, Bolelli più riservato e meno calamita per i riflettori, a differenza di Fognini ben più bersagliato dalle attenzioni mediatiche troppo frequentemente per i suoi comportamenti, invece che per il suo talento. In Coppa Davis si ritrovano invece alfieri di un gioco coinvolgente, accentuato dalla passione per la maglia che hanno sempre difeso con onore, offuscato dalla questione convocazione di cui fu protagonista Bolelli, ora in archivio. 6-2 il bilancio della coppia nella competizione mondiale dal 2012, a conferma di un’ottima resa in una situazione decisiva come spesso il doppio di Davis si rivela.
A Genova si troveranno di fronte una delle coppie migliori degli ultimi anni, proprio la stessa che sconfissero a Melbourne nel 2015, l’unico precedente. I francesi Nicolas Mahut e Pierre-Hugues Herbert, sei Masters 1000 e due Slam conquistati, tra gli altri titoli, negli ultimi due anni e mezzo. Un team affiatato, costruito su un rapporto quasi familiare, fraterno, che ha sempre visto Mahut fare da chioccia al più giovane compagno, forse galvanizzato da quando finalmente è riuscito a sbloccarsi in singolare nel 2013. I galletti sono in ripresa dopo un inizio di anno non folgorante, per quanto abbiano già vinto il torneo di Rotterdam, dove già si dicevano pronti ad affrontare gli azzurri: “La terra rossa potrebbe fare la differenza, soprattutto considerando che Fognini dà il meglio là. Ma ci stiamo preparando, dopo una brutta uscita a Melbourne stiamo lavorando duro”. Una storia non troppo diversa da quella della coppia azzurra: Mahut, a trentasei anni, continua a dedicarsi al singolare senza risparmiarsi: “Amo il gioco, e mi prefisso obiettivi senza i quali non potrei andare avanti. Non è facile bilanciare entrambi gli impegni, ma finché ho energia per farlo, continuo”. E basta, ovviamente, definirlo solo come quello che ha perso il match più lungo della storia.
Herbert, con il suo aspetto da scolaro mesto e uno stile di gioco anacronistico per i tempi di oggi, segue a ruota: “Il singolare è la mia priorità assoluta, senza dubbio. Ma in doppio stiamo facendo benissimo, e quando lo giochiamo ci dedichiamo al massimo. Finché riusciamo, è bello poter competere ad alti livelli”. Pierre-Hugues, che parla un perfetto tedesco stanti le sue origini alsaziane, non ha ancora trovato l’acuto in singolare, forse anche a causa di una certa mancanza di killer instinct e malizia che fanno la differenza quando c’è da confrontarsi con una pressione importante come quella di un paese così blasonato: “Devo farci i conti, senza dubbio, ma di certo non ho la stessa pressione che ha avuto Gasquet! Avere il sostegno del mio paese è unico, io tra l’altro sono sempre stato uno delle seconde linee, è quasi una novità”.
Come per gli italiani dunque, due esperienze e due caratteri diversi che però quando si incontrano possono dar luogo a momenti di livello assoluto. Sarebbe stupido comparare un eventuale successo con quello australiano di tre anni fa. Ma battere i campioni in carica, nelle figure di due dei migliori interpreti della specialità del mondo, potrebbe davvero essere un grosso scossone per la stagione, oltre che per il tie in sé. La cicatrice della sconfitta a Melbourne è ancora palpabile (“Ci abbiamo già perso una volta, ma siamo pronti“), chissà che la memoria non possa giocare al fianco degli azzurri.