Si è chiusa la stagione del cemento e sta per entrare nel vivo quella della terra rossa. È uno dei passaggi di superficie stabiliti dal calendario WTA che, a grandi linee, funziona così: si comincia in gennaio sul duro, poi in primavera si gareggia sulla terra, quindi in giugno-luglio sull’erba, per chiudere l’anno nuovamente sul cemento, in America e Asia.
Anteprima della stagione 2018 su terra rossa è stato il torneo di Charleston, che si è disputato sull’Har-Tru, la terra grigio-verde americana, che si potrebbe considerare in termini di rapidità come una via di mezzo tra cemento e terra rossa.
Parlare di rapidità dei campi riferendosi solo alla superficie è un approccio impreciso. In realtà sappiamo che le condizioni di gioco sono determinate da tanti fattori: palline, campo, clima, altitudine; perfino l’architettura dell’impianto può incidere. Consideriamo per esempio l’altitudine: giocare sul livello del mare non è come farlo ai quasi 700 metri di Madrid o addirittura ai 2600 di Bogotà, dove l’aria più rarefatta favorisce la velocità della palla. Così come la condizione di Stoccarda (indoor) non è la stessa del clima mutevole del tennis all’aperto. E poi ci sono le diverse specifiche di fabbricazione dei campi che sono omologate dalla ITF in base alle aziende che li progettano e realizzano. Dunque considerare la terra come “lenta” e il cemento come più “veloce” non è sempre corretto.
Malgrado tutti questi distinguo, il cambio di superficie rimane un fattore importante, che determina equilibri differenti fra le giocatrici. È infatti innegabile che il gioco su terra battuta abbia le proprie specificità. Sulla terra contano un po’ meno i colpi di inizio gioco (servizio e risposta) e la conseguenza è che gli scambi diventano mediamente più lunghi.
In generale è più difficile ottenere vincenti, perché la possibilità di colpire scivolando favorisce le azioni difensive. Rimando a questo articolo di Luca Baldissera che ha approfondito il tema: “Mentre si scivola, è relativamente facile iniziare in anticipo la fase di cambio di direzione rivolgendosi in direzione contraria allo spostamento appena effettuato, in un solo gesto contemporaneamente allo swing a colpire. Praticamente, si arriva sulla palla prima, e soprattutto si rientra prima in copertura: è come se il campo per l’avversario diventasse più piccolo”.
Altre particolarità significative: di solito la terra restituisce meno energia alla palla rispetto ad altre superfici, e questo può diventare un problema per chi ha strutturali deficit di potenza, cioè le giocatrici fisicamente meno forti che tendono ad appoggiarsi ai colpi delle avversarie per far viaggiare i propri. Così, se da una parte la terra può risultare un vantaggio per chi è più dotata in difesa e fa leva sul tennis di contenimento, dall’altra può creare problemi alle difensiviste meno potenti. E così si possono spiegare le difficoltà di giocatrici come Agnieszka Radwanska.
Ci sono altre conseguenze determinate dalle specificità del terra battuta. Pensiamo a un solo colpo come esempio: la smorzata. Sul rosso la smorzata diventa più efficace, proprio per la diversa “rispondenza” della superficie rispetto al cemento. Ma c’è un altro motivo per cui viene utilizzata con maggiore successo. Nel confronto su terra può capitare più spesso che chi difende riesca a reggere lo scambio anche quando arretra di parecchio rispetto alla linea di fondo. E quindi, se chi ha in mano il gioco non riesce a fare il punto “allargando” le geometrie, può provare ad approfittare della notevole distanza sulla verticale di chi è in difesa, proprio ricorrendo al drop-shot.
In generale si può dire che la terra rossa sia una superficie che favorisce la costruzione più articolata del punti. Le conseguenze però non sono solo tattiche, ma anche fisiche: lo scambio più lungo rende più faticoso il match, favorendo chi possiede doti di resistenza rispetto a chi, invece, è più reattiva e scattante, e riesce a valorizzare queste qualità sui campi rapidi. Facendo un paragone con l’atletica, si potrebbe dire, per esempio, che l’erba è una superficie da sprinter, mentre la terra è per fondiste.
C’è poi un aspetto di cultura sportiva che non si può trascurare: il paese di formazione delle tenniste. Chi è nata nei paesi latini ha molta confidenza con il rosso, mentre una inglese, una americana, una australiana, di certo hanno meno occasioni di giocarci negli anni dell’apprendistato. Per questo a volte la terra rimane abbastanza indigesta per alcune giocatrici, anche al di là di quello che si potrebbe pensare analizzando sulla carta le loro caratteristiche fisico-tecniche. Penso ad esempio a Caroline Wozniacki, che secondo me avrebbe le doti per emergere sul rosso, ma che invece si esprime al meglio solo sul cemento.
È meno frequente, ma a volte può però capitare che nel corso della carriera di una giocatrice il processo di adattamento alla superficie abbia successo, con significativi miglioramenti nei risultati. Come nel caso di Maria Sharapova che, dopo avere avuto molte difficoltà da giovane, con l’avanzare delle stagioni è diventata una delle tenniste più forti su terra. Il suo albo d’oro lo testimonia: su 5 Slam totali, ha vinto prima sull’erba, poi sul cemento (Wimbledon 2004, US Open 2006, Australian Open 2008) e ha dovuto attendere la maturità per vincere il Roland Garros (2012). Ma poi è stata capace di bissare il successo proprio a Parigi (2014).
a pagina 2: chi migliora e chi peggiora sulla terra (carriera)