Il 2018 è diventato l’anno in cui viene sfatato il complesso dello Slam. In Australia e Francia abbiamo avuto due vincitrici che hanno seguito lo stesso percorso: prima il periodo da numero 1, ai vertici della classifica WTA senza avere vinto Slam; e solo poi, dopo aver dovuto subire molte critiche, il momento del salto di qualità definitivo con la conquista del Major. È accaduto in gennaio con gli Australian Open di Caroline Wozniacki, e la scorsa settimana al Roland Garros con la vittoria di Simona Halep.
Prima del successo che ha modificato definitivamente il loro status, sia Caroline che Simona hanno dovuto fronteggiare critiche frequenti, e in fondo simili: venivano considerate tenniste incapaci di dare il meglio quando conta veramente, non all’altezza nei momenti topici. Forse per Wozniacki si sottolineavano maggiormente alcuni limiti tecnici, mentre per Halep quelli mentali, ma si trattava di differenze marginali: in sostanza, alla base di tutto, c’era l’etichetta di “perdente”.
Una etichetta che troppo spesso viene appiccicata alle giocatrici prima che abbiano terminato la carriera. Come se le esperienze del passato non avessero insegnato che è meglio aspettare prima di trarre valutazioni definitive. Oggi consideriamo Kim Clijsters una campionessa, ma nel momento in cui divenne numero 1 del mondo (agosto 2003) non aveva Slam: vantava solo due finali perse. Clijsters avrebbe mancato altre due finali prima di riuscire a vincerne una; ma da quel momento non ha più perso nell’atto conclusivo, arrivando a 4 Major in carriera. Situazione simile per Amélie Mauresmo: prima volta in cima al ranking nel settembre 2004, con nel curriculum una sola finale Slam, persa; i due titoli vinti sarebbero arrivati nel 2006.
Non solo. Per Halep le critiche si erano fatte più aspre quando, qualche settimana fa, erano trascorsi i dodici mesi dalla vittoria di Madrid 2017. Simona infatti si era trovata in una situazione scomoda: nel calcolo dei punti utili per determinare il primato del ranking risultava un solo torneo vinto, un “misero” International conquistato in gennaio a Shenzhen. Per il resto solo piazzamenti. Diverse finali, ma tutte perse (Cincinnati, Pechino, Australian Open, Roma). Ma anche se perdere le finali non è un merito, non bisogna dimenticare che per raggiungerle si devono comunque vincere molte partite, e nel caso di Halep erano state sufficienti per stare in cima alla classifica WTA. Malgrado tutto, le concorrenti erano risultate meno continue di lei.
Halep a Parigi: il percorso verso la finale
Per il secondo anno consecutivo Halep si è presentata a Parigi come prima favorita: per i bookmaker, ma anche per molti giornalisti. Una valutazione che però andava confermata sul campo dopo le due finali mancate nel 2014 e nel 2017. Proprio per come era andata l’ultima edizione, e in generale per come si era sviluppato il periodo recente della carriera di Simona, si può dire che il suo torneo fosse diviso in due fase differenti: i primi sei turni, di avvicinamento alla finale; e la finale vera e propria, il vero scoglio da superare.
L’impatto con il torneo è stato complicato: la sua parte di tabellone ha iniziato a giocare per seconda, e Halep è stata designata sul Centrale nella giornata di martedì, ultimo match della programmazione. Solo che, come troppo spesso è capitato in questa edizione, un po’ per la pioggia, un po’ per i calcoli sbagliati degli organizzatori, non è stato possibile rispettare il calendario previsto: partita rinviata. E così la numero 1 del mondo si è ritrovata a giocare il primo turno il mercoledì, ultima in assoluto. Non deve essere stato facile passare una giornata intera nell’attesa di cominciare lo Slam, carica di aspettative, e ritrovarsi poi rimandato tutto al giorno dopo, quando le altre già disputavano il turno successivo. In pratica lo Slam di Simona è durato undici giorni effettivi, da mercoledì al sabato della seconda settimana.
Al momento dell’esordio contro Alison Riske, malgrado l’avversaria fosse ampiamente alla sua portata, Halep ha iniziato malissimo: sotto per 0-5 ha finito per perdere il primo set per 2-6. Gratuiti in serie e pressione alle stelle, difficile da gestire. Poi nei set successivi Simona ha ripreso il controllo, portando a casa il match senza troppi problemi, anche perché perdere su terra da una erbivora come Riske sarebbe stato troppo (2-6, 6-1, 6-1).
Superato lo spavento iniziale, Halep ha veleggiato nei turni successivi: due set a zero contro Townsend, Petkovic e Mertens. Solo Andrea Petkovic le ha creato problemi, ma vanno riconosciuti i meriti di Andrea, che ha giocato un primo set degno dei tempi in cui era top ten, dando vita a una vera e propria battaglia ad alto ritmo. Primo set durato 57 minuti di tennis intensissimo, non replicato nel secondo set anche a causa di un problema al ginocchio di Petkovic (7-5, 6-0). Ma che Halep fosse in ottima forma lo si è capito da come ha regolato senza problemi (6-2, 6-1) Elise Mertens che era reduce dalla semifinale agli Australian Open, ed era pur sempre testa di serie numero 16.
Sono dunque arrivati i turni decisivi: quarti con Kerber, semifinale con Muguruza. Di fronte ad Angelique le sono occorsi tre set per prevalere (6-7(2), 6-3, 6-2), in una partita non semplice all’inizio, contro una avversaria dalle notevoli capacità in difesa e da sempre ostica per Simona (6-4 negli scontri diretti). Ma la terra rossa è sicuramente il terreno su cui Kerber si trova meno a suo agio, e non sorprende quindi che a lungo andare la migliore interpretazione della superficie abbia prevalso.
Più facile del previsto il confronto con la vincitrice del Roland Garros 2016, Muguruza. Il punteggio (6-1, 6-4) restituisce fedelmente l’andamento del match: primo set in pieno controllo, e secondo nel quale Garbiñe è cresciuta di livello, ma non a sufficienza per rovesciare l’esito. Anche perché, secondo me, la partita si è giocata quasi sempre sul terreno prediletto da Simona: quello dello scambio costante a ritmo medio-alto.
Direi che sono stati tre i punti deboli di Muguruza che hanno fatto la differenza. Il primo: l’incapacità di incidere a sufficienza con i colpi di inizio gioco (sui quali Garbiñe avrebbe potuto avere, almeno sulla carta, qualche vantaggio). Secondo: la difficoltà da parte di Muguruza nel trovare i tempi necessari per accelerare o per verticalizzare, che sono una sua prerogativa delle giornate migliori. Terzo: la relativa affidabilità del dritto, con troppi gratuiti nei momenti chiave. Contro una Halep solidissima, che non ha mostrato crepe di alcun genere, questi tre limiti di Garbiñe sono risultati decisivi.
E così, per il secondo anno consecutivo, Halep è approdata in finale. Indipendentemente dall’avversaria, era proprio l’impegno conclusivo quello che generava i veri, grandi interrogativi. Già altre due volte Simona aveva dimostrato di poter giocare molto bene a Parigi, e di arrivare sino in fondo con sicurezza. Il problema rimaneva l’ultimo match, la partita che fa tutta la differenza nella considerazione degli appassionati, e che conta per la storia del tennis. Dopo Maria Sharapova (2014) e Jelena Ostapenko (2017), questa volta il tabellone proponeva Sloane Stephens, la campionessa in carica degli US Open, che si presentava con un record a livello WTA di sei finali vinte sue sei in carriera: 100%.
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