0 – le vittorie raccolte in carriera nei tabelloni principali del circuito WTA da Deborah Chiesa, 22 anni e 159 WTA, e Martina Trevisan, 24 anni e 190 WTA. Le due azzurre, rispettivamente numero 3 e 5 italiane (considerando anche la squalificata Errani, destinata entro qualche mese a perdere i suoi punti) la scorsa settimana sono state brave a qualificarsi alla prima edizione del torneo di Mosca. Nel main draw Deborah ha però poi ceduto (6-4 6-0) a Vikhlyantseva, 103 WTA; mentre Martina è stata fermata (6-3 6-4) da Kozlova. In un momento molto positivo del settore maschile, preoccupa non poco la situazione di quello femminile, sempre più a tinte fosche. Camila Giorgi a parte, non solo non vi sono le eredi delle campionesse degli ultimi anni, ma nemmeno si intravedono a breve tenniste capaci di entrare stabilmente nella top 100. Chiesa ha avuto a febbraio l’exploit in Fed Cup contro la Arrabuarena, 82 WTA ma poi non si è saputa ripetere; Trevisan, invece, solo una volta in carriera ha sin qui sconfitto una top 100 (Parmentier in un ITF nel 2016). Lo scenario cambia pochissimo anche considerando Jasmine Paolini, numero 4 azzurra e 182 WTA: la 22 enne lucchese ha avuto una grande picco di rendimento lo scorso aprile a Praga, quando ha sconfitto Kasatkina e Schmiedlova, ma anche in questo caso il suo è rimasto un episodio isolato.
1 – i match point sprecati da Jozef Kovalik (sul 6-5 del tie-break del set decisivo) contro Leonardo Mayer nella semifinale dell’ATP 500 di Amburgo. Un’occasione sfumata davvero grande per il 26enne slovacco, sinora un carneade a questi livelli – una sola semifinale (quest’anno all’ATP 250 di Sofia) e appena due quarti (Monaco di Baviera 2016 e Chennai 2017) a livello ATP. Dopo aver iniziato l’anno quasi fuori dalla top 200 (era 187 ATP), e dopo la semi di Sofia, era riuscito a giocare nel main draw di soli due eventi del circuito maggiore (Barcellona e Roland Garros, fermandosi al primo turno). Sulla sua superficie preferita, la terra, a livello Challenger nell’ultimo mese aveva ottenuto un titolo e una finale, mostrando di essere nel pieno della forma e avvicinandosi di molto al suo best career ranking (109, nel gennaio 2017). È riuscito a migliorarsi grazie alla semifinale raggiunta ad Amburgo partendo dalle qualificazioni: da oggi è infatti numero 82 del ranking ATP.
2 – appena le finali raggiunte da John Isner in Europa (sulla terra di Belgrado nel 2010 e sul tappeto indoor di Bercy nel 2016), una piccolissima porzione delle ventisei (con quella vinta ad Atlanta poche ore fa) totalizzate sin qui in carriera. Se si escludono anche le due conquistate ad Auckland (nel 2010 e 2014) si nota facilmente che ventidue (circa l’85 %) sono state ottenute negli Stati Uniti, nelle più svariate condizioni di gioco: due sulla terra di Houston, tre sull’erba di Newport, una sull’indoor di Memphis, le restanti nelle condizioni che maggiormente preferisce (cemento all’aperto). Tornato in quello che è il torneo maggiormente capace di dargli soddisfazioni (cinque successi e tre finali), Isner ha sconfitto De Minaur (6-3 6-2), 68 ATP; Misha Zverev (7-5 4-6 6-1), 45 ATP; Ebden (6-4 6-7 6-1), 55 ATP per poi battere ancora Ryan Harrison, nella mancata rivincita della finale del 2017. La prova provata che giocare in casa aiuta anche nel tennis.
4- le partite vinte da Ryan Harryson dopo aver perso il primo set in quest’ultima edizione dell’ATP 250 di Atlanta. Vittorie in rimonta che gli hanno permesso di conquistare la seconda finale consecutiva nella capitale dello stato della Georgia e la quarta in assoluto nel circuito maggiore (dopo Memphis, Atlanta l’anno scorso e Brisbane lo scorso gennaio). Il 26enne statunitense, in questa edizione 2018 del BB&T Atlanta Open, ha eliminato Duckworth (4-6 7-6 6-1), 660 Atp; Lacko (2-6 6-2 6-3) 71 ATP; Chung (6-7 6-2 7-6) 23 ATP e, in semifinale, Norrie (2-6 6-3 6-2) 73 ATP. Harrison non era reduce da un buon periodo di forma: aveva vinto una sola partita negli ultimi sei tornei ai quali aveva partecipato e non vinceva due match di fila addirittura da fine febbraio ad Acapulco, dove arrivò ai quarti. Il ritorno sul cemento all’aperto lo ha rivitalizzato e, pur con difficoltà (sebbene non abbia mai dovuto annullare match point), ha interrotto il black-out di risultati e dato vita alla rivincita della finale 2017 contro Isner, purtroppo per lui con esito ancora sfavorevole.
5 – le sconfitte dovute a ritiro totalizzate da Nick Kyrgios negli ultimi tredici mesi. Dopo quelle al Queens, Wimbledon, Washington e Shanghai dello scorso anno, lo stesso (triste) epilogo si è verificato durante i quarti che la scorsa settimana l’australiano stava giocando ad Atlanta contro Cameron Norrie. Sul punteggio di 7-5 3-0 a favore del britannico, il numero 18 del mondo si è ritirato per un problema all’anca, uscendo dal campo tra i fischi del pubblico deluso. Continua dunque la mancanza di una completa efficienza fisica per Nick, in questo 2018 già costretto a saltare i due mesi sulla terra rossa europea per un problema al gomito. La mancata voglia di concentrarsi totalmente sul tennis e una serie infinita di infortuni (magari dipendenti almeno in parte proprio dalla suddetta indisponibilità di dedicare quasi totalmente la sua vita allo sport) stanno frenando irrimediabilmente l’ascesa di un tennista mai salito oltre la 13° posizione, ma da moltissimi ritenuto un possibile campione.
7 – le sconfitte consecutive rimediate da Nikoloz Basilashvili nella prima parte del 2018. Una serie negativa iniziata col 7-5 al quinto rimediato al terzo turno degli Australian Open contro Kyle Edmund, che ha avuto il momento più buio durante le due mortificanti sconfitte patite in Coppa Davis contro il Marocco rappresentato da Ouahab (591 ATP) e Ahouda (698). Dopo quelle gravi macchie, alle quali erano seguite quattro sconfitte al primo turno tra New York, Delray Beach, Acapulco e Indian Wells si era ufficializzata la crisi, terminata solo a Miami con la vittoria al fotofinish su Fabbiano. Il 2018 aveva portato al 26enne georgiano solo tre quarti di finale (Marrakech e Budapest sulla terra, Antalya sull’erba), facendogli perdere la top 60 con la quale aveva chiuso il 2017. Ad Amburgo, dove ha eliminato Kamke e Jurgen Melzer per qualificarsi al main draw, è arrivata la settimana sin qui più bella della carriera, con la vittoria del primo titolo alla terza finale raggiunta. Un grande torneo, nel quale per la prima volta ha sconfitto nella stessa competizione due top 30, testimonianza di un livello di gioco che gli ha consentito di essere il primo qualificato a vincere un ATP 500 dai tempi di Petzschner a Vienna, ormai dieci anni fa. Nell’ordine, il georgiano classe 92 ha eliminato Kohlshreiber (7-5 1-6 6-4), 25 ATP; Cuevas(7-6 6-4), 72 ATP; Carreno Busta (7-6 6-4), 13 ATP; Jarry (7-5 0-6 6-1), 68 ATP e in finale ha prevalso sul due volte campione del torneo, Leonardo Mayer (6-4 0-6 7-5), 36 ATP.
12 – le prime volte tennistiche di Matteo Berrettini in questo 2018. L’azzurro aveva chiuso la passata stagione alla 135°posizione del ranking, compiendo un balzo di 298 posizioni rispetto a quella, 433 ATP, con la quale aveva iniziato il 2017. Progressi in classifica ragguardevoli, permessi da un successo in un Futures e soprattutto dalla prima vittoria di un torneo Challenger (San Benedetto) e da altre quattro finali, piazzamenti impreziositi dalla prima vittoria su un top 100 (Donskoy). Dopo quello che era stata un’ottima annata in quanto a maturazione e progressi tecnici compiuti, era difficile immaginare si potesse fare in proporzione ancora meglio, anche perché il salto in avanti nel circuito maggiore è sempre il più complesso per un giovane tennista. Invece Matteo ha sorpreso in positivo tutti (forse anche se stesso) e in questo 2018 per la prima volta si è qualificato in un main draw di un torneo ATP (a Doha a gennaio) e ha ottenuto la prima vittoria a quel livello (contro Troicki, sempre in Qatar). Non contento, ha continuato un ottimo mese di gennaio arrivando al terzo turno di quali a Melbourne e, da ripescato, ha giocato il suo primo main draw in un Major.
L’evolversi continuo dei miglioramenti del 22enne romano ha trovato nel corso di questi mesi continui riscontri: a marzo è arrivata la prima vittoria contro un top 50 (al Challenger di Irving contro Sugita, 40 ATP), mentre a maggio sono giunte le vittorie nei tornei di livello superiore. Prima a Roma, con la vittoria su Tiafoe, Matteo otteneva il primo successo in un Masters 1000, poi a Parigi, superando Otte e Gulbis, giungeva per la prima volta in un terzo turno di uno Slam, dove avrebbe perso lottando in quattro set dal futuro finalista, Thiem. A Wimbledon la vittoria in rimonta da due set sotto contro Jack Sock, 15 ATP, aveva una doppia valenza: il primo successo dopo aver perso i primi due parziali e, soprattutto, contro un top 20.
A Gstaad, sulle Alpi svizzere dove l’anno scorso aveva vinto Fognini, è arrivato il primo titolo della giovane carriera del romano, che gli ha permesso di infrangere in un colpo solo ben quattro prime volte (primi quarti, semifinale, finale e successo a livello ATP). Fognini l’anno scorso aveva riportato in Italia un titolo che mancava dal 1963 – quando vinse Nicola Pietrangeli – ed era stato il primo italiano in assoluto nell’Era Open a mettere il proprio nome sul prestigioso albo d’oro della competizione (vanta, andando a ritroso negli ultimi anni, campioni Slam come Gaudio, Federer, Albert Costa, Kafelnikov, Bruguera, Edberg, Vilas, Rosewall, Nastase, Newcombe, Roche, Emerson). Negli ultimi anni, prima di Fognini, i migliori risultati italiani erano state le finali raggiunte da Adriano Panatta nel 1971 e 1972 e Andreas Seppi nel 2007. Matteo ha iscritto sull’albo d’oro un nuovo nome italiano, vincendo cinque partite senza perdere un set e, soprattutto, senza subire un break. Come si vede dai punteggi, Albot (6-4 6-2), 97 ATP; Rublev (duplice 6-3), 46 ATP, Lopez (6-4 6-3), 66 ATP; Zopp (6-4 7-6), 107 ATP; e Bautista Agut (7-6 6-4), 17 ATP, i suoi avversari a Gstaad, sono stati battuti con margine. A ventidue anni e tre mesi, nessuno degli italiani (Fognini, Seppi, Gaudenzi, Furlan e Camporese) arrivati nella top 20 negli ultimi quattro decenni aveva già vinto un titolo e solo il faentino aveva una classifica da top 30 a quell’età. Sono dati che possono voler dire poco, ma sono senz’altro benauguranti per il futuro di Matteo, il quale però ha bisogno di tutto, meno che della grande pressione e delle aspettative sempre crescenti che in queste ore lo stanno circondando. Matteo ha la mentalità, il dritto e il servizio dell’ottimo tennista, ma lasciamolo crescere con calma.
314 – la classifica di Oriol Roca Batalla, il lucky loser capace di sconfiggere a Gstaad Paolo Lorenzi. Il 25enne spagnolo, al suo esordio in carriera in un torneo ATP, dopo essere stato ripescato a seguito del forfait a main draw già compilato di Pella, ha ottenuto la sua prima vittoria nel circuito maggiore, nonché il primo successo su un top 100, sconfiggendo Paolo col punteggio di 6-3 6-7(4) 6-3. Si tratta della terza sconfitta (dopo quelle con Zhang, 495, a Shenzhen e Davidovich Fokina, 393, al Challenger di Caltanissetta) di Lorenzi contro tennisti non compresi nella top 300, dopo gli ottavi da lui raggiunti agli US Open 2017. A queste brutte parentesi della sua splendida carriera, vanno aggiunte altre cinque contro giocatori non tra i primi 100 del ranking, sempre considerando il lasso temporale che va dallo scorso settembre in poi . Numeri più che preoccupanti per il futuro prossimo di un tennista esemplare da tanti punti di vista, ma incapace in questo 2018 – nel quale a livello ATP ha vinto appena cinque partite – di ritrovare la piena efficienza fisica. Non può che andare meglio di adesso, per Paolo.
2001 – l’anno di nascita delle due finaliste della prima edizione del Moscow River Cup, ricco (750.000 dollari di montepremi) International disputatosi sulla terra rossa nella capitale russa. Pur essendo dotato di un buon tabellone, con due top 15 ( Goerges 10 e Kasatkina 13 WTA) e altre cinque top 50, il torneo ha proposto diverse sorprese. Questa edizione verrà ricordata per aver presentato al mondo del grande tennis due molto promettenti, ma sconosciute (ai più) 17 enni, Olga Danilovic e Anastasia Potapova. Le due hanno così dato vita alla prima finale WTA tra atlete nate nel nuovo millennio. A iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro è stata la mancina serba, figlia dell’ex campione di basket Sasha Danilovic (trascorsi a Bologna e nell’Nba), al termine di una battaglia con la wild card locale durata quasi due ore e mezza e terminata col punteggio di 7-5 6-7(1) 6-4. La giovane serba, anche aiutata dalla sempre necessaria fortuna (eliminata nelle quali, è stata poi ripescata dopo il forfait di Petra Martic) ha meritato il titolo grazie al superamento di un cammino irto di ostacoli, in riferimento all’esperienza e alla classifica delle avversarie battute. Olga, prima della finale, ha infatti eliminato Schmiedlova (6-2 6-4), 83 WTA; Kanepi (7-6 7-5), 49 WTA; Goerges (duplice 6-3) e Sasnovich (6-2 5-7 7-5), 42 WTA. L’accesso nella top 100 è molto vicino (da oggi è n.112) così come è quasi certo che non sarà quello l’ultimo traguardo raggiunto da Olga, che aveva iniziato questo 2018 da numero 327 WTA.