Il torneo di Umago, con la sua atmosfera sicuramente più rilassata e distesa rispetto ad altre tappe del circuito ATP, è spesso una buona occasione per riuscire ad intervistare con un po’ più di tranquillità i top 50 che vengono a disputare il 250 croato. Quest’anno, non appena avuto conferma dei partecipanti, uno degli obiettivi da questo punto di vista – l’altro, ovviamente, non poteva che essere Marco Cecchinato – era Damir Dzumhur.
Del tennista bosniaco su Ubitennis abbiamo già parlato in diverse occasioni, di come un ragazzino cresciuto nella Sarajevo martoriata dalla guerra sia diventato, lavorando giorno dopo giorno, un giocatore di alto livello e uno degli sportivi più amati del suo paese, la Bosnia Erzegovina: dopo la doppietta San Pietroburgo – Mosca dell’autunno scorso Dzumhur è infatti entrato nei top 30, poi dopo la vittoria sull’erba ad Antalya di inizio luglio è approdato tra i primi venticinque giocatori al mondo.
Ma, come sempre, un conto è conoscere la storia di un giocatore e seguire il suo percorso, diverso invece è avere l’opportunità di parlarne con lui a quattr’occhi. Nel caso del venticinquenne tennista di Sarajevo, per conoscere un po’ di più questo giocatore dal fisico non certo da super atleta (175 cm per 70 kg), non di rado irascibile in campo, e magari capire come, mattone dopo mattone, sia riuscito a costruirsi un gioco ed una classifica di tutto rispetto.
Ci siamo riusciti, grazie anche alla paziente disponibilità dell’addetta ATP – che ci ha lasciato “sforare” i canonici dieci minuti previsti per l’intervista – e grazie soprattutto ad un Damir che, reduce da un allenamento sotto il cocente sole croato, è stato particolarmente disponibile. Sarà stato l’ambiente rilassato, la possibilità di parlare nella propria lingua o la conoscenza comune che risponde al nome del suo ex coach Alberto Castellani, sta di fatto che l’attuale n. 24 de mondo ci ha raccontato molto di sé. E non solo. Perché a Damir abbiamo chiesto anche qualcos’altro. Abbiamo chiesto anche di Marco Cecchinato, poiché ha avuto anche lui un ruolo nella favola del tennista azzurro, dato che ci ha perso a Montecarlo e a Budapest proprio quando la favola stava per cominciare.
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Dopo la stagione sull’erba, con la vittoria al torneo di Antalya, sei entrato tra i top 25. Soddisfatto del tuo 2018?
Sì, sono decisamente soddisfatto della stagione sull’erba, è stata molto buona, anche se mi dispiace un po’ per quel secondo turno a Wimbledon (sconfitta al quinto contro Gulbis, ndr) nel quale ho avuto le occasioni per andare avanti. Purtroppo non le ho sfruttate, nel secondo set ero avanti di due break, ma poi il mio gioco è sceso di livello, sono calato sia fisicamente che mentalmente. Molto probabilmente anche perché ho accusato tutta la stanchezza accumulata nei match precedenti, compresi quelli della settimana prima ad Antalya. Peccato, anche perché poi avrei incontrato Zverev. Un giocatore contro il quale a Parigi ho avuto un match point a favore e che conosco bene. Perciò, a prescindere dal suo ranking, ero sicuro di avere la possibilità di disputare un buon match e di avere le mie chance. Non ce l’ho fatta, ma sono comunque soddisfatto. Soprattutto di come ho giocato e, la cosa più importante, di quanto sia in fiducia. Comunque nel complesso, tutta la stagione è stata sinora molto positiva.
Magari poteva andare un po’ meglio sulla terra battuta. Si potrebbe osservare come sul rosso tu sia stato anche penalizzato dai sorteggi un po’ sfortunati nei tornei principali: al secondo turno del Potro a Madrid e Nadal a Roma. E poi Zverev al terzo turno del Roland Garros. Forse con un altro sorteggio sarebbe andata diversamente.
Sì, la penso anch’io così. Comunque, proprio a partire da Madrid ho giocato dei bei match. Anche se i risultati non sono stati a mio favore, ho giocato un buon tennis. E poi è vero che i sorteggi da Madrid a Parigi sono stati sfortunati, ma poi prima o poi le cose dovevano girare. Ed è successo ad Antalya, dove ero tra le prime quattro teste di serie, libero al primo turno, ed ho sfruttato l’occasione. Quindi tutte quelle piccole sfortune nei sorteggi sulla terra li ho compensati sull’erba.
Hai accennato prima al match contro Sascha Zverev. In casi come questi, è maggiore il rammarico per la vittoria sfuggita d’un soffio o la soddisfazione per aver giocato alla pari con il numero 3 del mondo?
Onestamente, subito dopo il match c’è il dispiacere per l’occasione che non sei riuscito a cogliere. Dura un paio di giorni. Poi, in seguito, rimane molto di più il ricordo dell’aver giocato bene e di essere andato molto vicino alla vittoria. E a prescindere dalla sconfitta, come anche quella successiva ai Queen’s contro un altro top player come Dimitrov, l’aver giocato bene, al loro livello, aumenta la fiducia in se stessi e nel proprio gioco. Ed è una conferma che il posto raggiunto nel ranking è meritato.
Facciamo un passo indietro. Prima dei tornei di cui abbiamo parlato, sulla terra avevi perso contro due giocatori italiani: con Marco Cecchinato a Montecarlo e Budapest, con Fabbiano a Istanbul. Mettiamola con una battuta: non ti piace giocare contro i tennisti italiani?
Mah, non lo so. È andata cosi. Con Fabbiano ho perso quel match, ma è l’unico, ne avevo vinti cinque o sei prima (sei di fila per l’esattezza, con il tarantino che aveva vinto solo la prima sfida, a livello Challenger, nel lontano 2012, ndr) e tutti quelli sul cemento (due su due, diventati tre su tre con la vittoria di fine luglio a Los Cabos, ndr). Se vado ad analizzare la cosa, contro gli italiani ho perso sulla terra, ma ho vinto sulle superfici veloci. Con Fognini ho perso due volte sulla terra, sempre qui ad Umago, ma ho vinto sul cemento a San Pietroburgo. E anche con Cecchinato, ho perso tre volte sulla terra, ma ho vinto sul duro. In realtà ci sono tutta una serie di cose da considerare. I tennisti italiani sono molto forti sulla terra battuta, meno su altre superfici, eccetto Seppi. Inoltre il mio gioco, che negli ultimi due-tre anni è diventato più adatto al cemento e all’erba rispetto alla terra, soffre un po’ il loro stile. Specie un giocatore come Cecchinato, con il suo servizio in kick, un buon dritto, in grado di giocare scambi lunghi e profondi, palle con molto spin che rimbalzano alte, mi crea delle difficoltà. Invece sulle superfici rapide contro questi giocatori mi sento molto più a mio agio. Quindi, alla fine tutto dipende dal sorteggio: se capiterà di incontrarli sulla terra o sul veloce.
Hai parlato di Cecchinato. Voi giocatori vi conoscete, vi vedete giocare, vi allenate insieme, praticamente quasi ogni settimana, Tu contro di lui, come dicevamo, hai giocato due volte di fila in aprile. Un mese dopo è arrivato in semifinale al Roland Garros. Pensavi, dopo averci giocato, che potesse ottenere un risultato simile? O, come ha peraltro detto lui stesso, è stato qualcosa di assolutamente incredibile?
Io, sinceramente, ho sempre detto che Marco è un giocatore molto forte sulla terra. Meno sulle altre superfici, proprio per il suo tipo di gioco. Ecco, se dovessi scegliere un tennista italiano contro il quale giocare su superfici dure, direi Marco (curioso come Damir, nonostante questa affermazione, abbia poi scelto proprio Cecchinato come partner nei tornei di doppio di Toronto e Cincinnati, ndr). Ma lui sarebbe anche quello che vorrei evitare sulla terra battuta. Questo perché il suo stile di gioco è veramente ottimo sul rosso. Su questa superficie è sempre stato straordinariamente costante in termini di risultati a livello Challenger, mentre a livello di circuito ATP giocava bene ma non era mai riuscito a fare risultati, Come dicevo, lui ha sempre avuto un gioco adatto alla terra rossa, ma evidentemente non mai era riuscito a dimostrare tutto il suo potenziale, non era mai riuscito ad andare oltre mentalmente e a dirsi “Io sono meglio di così”. E poi arriva Budapest – anche se già contro di me a Montecarlo aveva giocato un ottimo match – dove quella vittoria, partendo da lucky loser, gli ha dato quella fiducia e quell’autostima necessarie per poi fare il salto. Il tennis è così. Del resto tutti giocano bene a tennis e sono in grado di fare ottimi risultati. E non puoi prevedere quando accadrà che uno farà il salto. Per quanto riguarda Marco, a lui vanno i miei complimenti: fare semifinale in uno Slam, battere Novak Djokovic. Fantastico.
Proprio Cecchinato, parlando del suo exploit parigino, ha detto che in Francia per lui è scattato il famoso “click”, quello di cui voi giocatori spesso parlate, che gli ha fatto fare il salto di qualità. Possiamo dire che per te il “click” sono state le vittorie di Mosca e San Pietroburgo dello scorso anno?
Sì, anche quelle. Per me in realtà il “click” è stata tutta la seconda metà della scorsa stagione. Proprio dopo Umago, ho fatto semifinale ATP (Los Cabos), finale Challenger, finale ATP (Winston-Salem), terzo turno in uno Slam. Poi ancora vittoria in un torneo ATP, un’altra semifinale e dopo ancora un altro torneo ATP vinto. Tanti bei risultati in un breve periodo, ed ecco che è scattato il “click”. Sentivo che stavo giocando bene, ero in fiducia. Non pensavo più di tanto agli avversari, e neanche più di tanto al mio gioco. Mi divertivo veramente a scendere in campo e a giocare, ottenendo ottimi risultati. Poi all’inizio della stagione sono tornati i pensieri, anche con riferimento al fatto che sarebbe capitato più spesso che sarei sceso in campo da favorito. È arrivata una pressione che non c’era mai stata prima e bisognava affrontarla. Ci è voluto un po’ di tempo. Anche il fatto di essere testa di serie e non giocare al primo turno era una novità a cui bisognava adeguarsi. Tutte cose che bisognava affrontare. Col tempo tutto è andato meglio.
Tu sei un giocatore che è cresciuto con gradualità. Hai fatto l’ingresso tra i top 300 un mese e mezzo prima di compiere 20 anni (è nato il 20 maggio 1992, ndr). Sei diventato definitivamente un top 200 poco più di un anno e mezzo dopo, alla fine del 2013. Sei entrato nei top 100 dopo altri quattordici mesi . E infine, dopo più di due anni e mezzo, il salto tra i primi quaranta giocatori del mondo. Per riuscirci hai lavorato su tutti gli aspetti: tecnico-tattico, fisico e anche mentale. Su questo ultimo punto, in particolare, ti sei allenato con Alberto Castellani, uno dei pionieri del mental coaching nel tennis, ma anche con la mental coach serba Vesna Danilovic. Entrando nello specifico, che lavoro fai attualmente sulla parte mentale? Usi le routine che hai definito a suo tempo o fai anche qualche altro tipo di lavoro ?
Sì, ho le mie routine, ma ci sono anche persone con cui sono in contatto e che chiamo quando percepisco che ho bisogno di lavorare su certi aspetti, come la motivazione e la fiducia. Persone con cui faccio coaching e quindi in certi periodi fanno parte del mio team. Sono quel tipo di giocatore a cui non piace lavorare costantemente sugli aspetti mentali. Quindi magari faccio passare del tempo e poi quando sento che è il momento torno a lavorarci su. In generale, mi piace apportare dei cambiamenti nella mia vita, non mi piace quando tutto procede uguale. È noioso. Ed è così che mi piace anche giocare a tennis, in un modo che non sia banale. Sono una persona a cui piace cambiare le cose nella propria vita.
Anche fisicamente sei cresciuto molto. Ti avevo visto giocare dal vivo qui due anni fa e si nota la differenza.
Sì, sì, è vero. Negli ultimi due anni ho fatto un grosso lavoro con il mio preparatore atletico, a Belgrado. Ho lavorato tanto, mi sento bene, fisicamente sono migliorato molto, ho lavorato sulla resistenza, che è molto importante nel tennis. La preparazione fisica è indispensabile nel tennis attuale: oggi molti match si vincono con il fisico.
Accennavi prima al fatto di essere diventato un giocatore all-around, tu che nasci “terraiolo”. C’è un dato curioso che certifica questa tua evoluzione: hai vinto sette tornei Challenger tutti sulla terra, invece i tre ATP 250 tutti su superfici veloci.
Io quando dal circuito Challenger sono approdato al circuito ATP ho deciso di giocare di più sul duro. Questo perché oggi il 60-70% dei tornei ATP si gioca su superfici dure e soprattutto quasi tutti i tornei che contano: tre Slam sono su superfici veloci, la maggioranza dei Masters 1000 sono sul cemento. Quindi ho lavorato per migliorare il mio tennis su queste superfici. Ed è successo, sono migliorato veramente molto. Dall’altra parte questo ha significato dover giocar meno sulla terra e di conseguenza il mio gioco sul rosso ne ha risentito. Ora cerco di trovare un equilibrio a livello di gioco tra le diverse superfici, per essere in grado di ottenere buoni risultati dappertutto. Il fatto che nel circuito maggiore non abbia vinto nessun torneo sulla terra non significa, secondo me, che il mio gioco non è più così adatto a questa superficie, ma solo che si devono ancora incastrare un paio di cose come si deve. Chi l’avrebbe detto, ad esempio, che avrei vinto un torneo sull’erba? E invece ce l’ho fatta. Ripeto, l’obiettivo è quello di trovare un equilibrio ed essere competitivo su tutte le superfici. Poi, chiaramente, non va sempre così e ci sono periodi di alti e bassi, ma credo di poter dire di essere in grado di giocare bene su tutte le superfici.
Sei uno degli sportivi più popolari nel tuo paese, la Bosnia ed Erzegovina. Come vivi questa cosa? Si tratta di uno stimolo o di una responsabilità?
Anche questo fa parte di quello che dicevo prima, di quelle novità alle quali uno deve abituarsi e alla necessità di convivere con la pressione. Si tratta di accettare quello che si è. Dall’altro canto, come giocatore di tennis hai sempre molte pressioni, hai sempre da affrontare qualche tipo di pressione. E dobbiamo sempre riuscire a gestirle al meglio. Perciò credo che più sei in grado di gestire la pressione, più riesci a rendere sotto pressione, più migliorerai come giocatore. Comunque, adesso cerco di non pensare a tutto questo, cerco di lasciarlo da parte e di concentrami sul mio lavoro. Come dicevo, l’inizio della stagione per me non è stato facile perché ho fatto un po’ fatica a gestire tutte queste nuove pressioni. Pensavo troppo a cosa sarebbe successo se non fossi riuscito a fare questo o quello. Ma tutto questo non mi serviva per far meglio, mi faceva solo venire il mal di testa e non mi faceva rendere al 100%. Quando ho cominciato a pensare diversamente, ho cominciato a giocare meglio. Credo che sia normale, che serva un po’ di tempo per elaborare il tutto e poi andare avanti e tornare a giocare bene.
Sei cresciuto a Sarajevo durante la guerra, non hai avuto di certo le condizioni ideali – anche economicamente parlando – per diventare uno sportivo di alto livello. E anche dal punto di vista fisico non sei certo particolarmente dotato. Ti senti come un esempio per i giovani, per il fatto che tu hai dimostrato che si può arrivare al top anche se non hai alle spalle una famiglia facoltosa e non sei un super atleta?
Penso di sì. Per il modo in cui ho fatto tutto questo, per le condizioni in cui mi sono trovato a causa degli avvenimenti accaduti in Bosnia-Erzegovina. Ritengo che per tutto ciò posso rappresentare un buon esempio di come si possa riuscire anche se non si hanno dei genitori ricchi e non si hanno quelle predisposizioni fisiche che molti vorrebbero avere. Ma tutto questo, per me, non era fondamentale. Era fondamentale allenarsi, il modo in cui lo facevo e con chi. Era fondamentale che mio padre fosse il mio allenatore e che i miei genitori fossero sempre al mio fianco. E che ho sempre sentito che era quello che volevo fare. Sin da piccolo, io volevo diventare un giocatore di tennis. E voglio continuare ad esserlo, almeno fino ai 35 anni.
Quindi l’importante era avere un obiettivo.
Avere un obiettivo e perseguirlo.
All’inizio dell’anno avevi detto “Voglio entrare tra i top 20”. Ci sei quasi. Il prossimo step?
Fino a fine anno non mi pongo degli obiettivi particolari, se non quello di rimanere tra i primi 25-30. Perché, dopo i risultati ottenuti lo scorso anno, riuscire a confermarsi significa dimostrare che merito di stare lì dove sono. In modo da poter essere ancora il prossimo anno testa di serie negli Slam, magari in qualche Masters 1000 e anche nei 250, in modo da essere libero al primo turno. Per poi, continuando a giocare bene, puntare ad entrare tra i primi 15-20 del ranking.
Ma ci sarà un sogno. Qual è il sogno nascosto nel cassetto di Damir?
Come dicevi prima, io sono sempre stato un giocatore che ha fatto un passo alla volta e non voglio mettermi fretta. Ma chiaramente un sogno c’è, ed è quello di diventare uno dei primi dieci giocatori al mondo.