Se ti chiami tennis, New York non è una città semplice da impressionare. La concorrenza è spietata e in breve si chiama: tutto. Tutto quello che accade, ed è sempre tanto in un tale dedalo, tutto quello che è routine oppure succede una volta ogni tanto e quindi risalta ancora di più. Il tennis fa tappa a New York due settimane all’anno – tre se consideriamo la recente incursione del 250 di Long Island, che da quest’anno si gioca in febbraio a venti miglia da Flushing Meadows – e questo dovrebbe aiutarlo a fare significativa mostra di sé, con tutto il tempo che ha per imbellettarsi.
Quest’anno ha deciso di presentarsi con un stadio nuovo di zecca, costato un terzo dei 600 milioni messi a disposizione da USTA su base quinquennale, e a qualcuno è logicamente venuto in mente di rispolverare la prassi più comune per dargli un nome: intitolarlo a un grande tennista. Per approvare il progetto di ricostruzione del Louis Armstrong l’amministrazione di New York ha però preteso che l’ex residente del quartiere Queens, discreto trombettista, mantenesse gli antichi privilegi: il tennis sì, ma la storia di New York viene prima. Per vedere il proprio nome su uno stadio Chris Evert e John McEnroe dovranno quindi attendere la prossima colata (tennistica) di cemento… e terracotta, il materiale di cui sono composte le migliaia di pannelli tramite cui il nuovo Louis Armstrong – 14000 posti – garantirà agli spettatori il miglior acclimatamento possibile, senza sistemi di ventilazione artificiali. Ovviamente c’è un tetto che si chiude in sei minuti: meno di certi turni di servizio di Nadal, sebbene la recente introduzione dello shot clock aiuterà a livellare queste statistiche.
Infine, perché fosse chiaro che a New York il jazz non è soltanto un genere musicale che ha dato vita a tante diramazioni da rischiare la propria identità ma effettivamente una tradizione da preservare con devozione, l’inaugurazione del nuovo stadio che si è tenuta mercoledì è stata impreziosita dalla performance del jazzista Wynton Marsalis. Le prime palline sono state battute dai fratelli McEnroe, opposti alla coppia Chang-Blake nel doppio inaugurale. Jazz, innanzitutto.
Da una parte in abito da sera, dall’altra lo US Open aveva già cominciato a sudare con i due tornei di qualificazione. Che sì, hanno spedito nei tabelloni principali 32 giocatori, ma soprattutto sono stati solcati da un certo leitmotiv genitoriale.
Vera Zvonareva ha regalato alla sua piccola Evelyn, due anni, una qualificazione che è difficile spiegare se non come è stato già fatto in altra sede. Ti svegli, fai un po’ la mamma, poi vai in campo e quando ti trovi sotto 5-2 40-0 pensi ‘vabbè, ma io sono mamma‘ e quindi annulli tutti i match point che è necessario annullare. Semplicemente perché lo puoi fare. La 39enne Patty Schnyder è stata meno scenografica, ma non si dubiti che sua figlia, la biondissima Kim Ayla, sia attrice protagonista nella trama della sua seconda carriera iniziata nel 2015 dopo il ritiro ufficializzato quattro anni prima. Ne avevamo avuto il sospetto già a Gstaad.
Se poi credete che i figli siano speciali solo per le mamme-tenniste siete in errore, oppure vi siete persi il batuffolare di Stefan verso babbo Novak, neo-campione di Wimbledon. Il concetto lo ha ribadito quell’inarrestabile produttore di tenerezze che è il figlio di Nicolas Mahut. Il padre aveva appena visto scorrere alla sua sinistra il dritto vincente di Robredo, ultimo punto della partita che ha promosso lo spagnolo nel main draw, che in pochi secondi il figlio – sette primavere – gli si è approssimato per abbracciarlo, resosi conto di come l’espressione funerea di chi gli ha dato il cognome necessitasse di una certa dose di conforto. Tommy Robredo ha poi infiocchettato un momento da lacrimoni introducendosi nella scena per andare a salutare il piccolo.
Col rischio di apparire un po’ iconoclastici, sembra questo un elogio dell’essere genitore molto più naturale della narrativa che Serena Williams ha scelto di scrivere in calce alla pagina del suo ritorno in campo. Non si vuole mettere in dubbio le difficoltà che Serena ha incontrato e sta continuando a incontrare da quando ha messo al mondo la sua primogenita, ma al terzo giro di merletti la faccenda comincia ad apparire un attimo stucchevole. Alla libertà di divulgare qualsiasi particolare della propria vita privata si affianca l’innegabile dignità di chi tratta la faccenda con maggiore riservatezza. Famiglia, comunque la si intenda.
Sulle note del jazz di Louis Armstrong, ingentilite da questi quadretti famigliari, sta per cominciare (davvero) lo US Open 2018. Di come ci arrivano i favoriti vi abbiamo dato conto qui, chiedendoci se i bookmakers non abbiano preso un doppio abbaglio, e anche qui, per mezzo delle loro stesse dichiarazioni. Se gli outsider al maschile non possono che essere pescati dal solito gruppo – li si elenca con volitiva speranza ogni volta, salvo poi veder trionfare uno dei soliti – quelle al femminile andrebbero invece selezionate da una lista ben più numerosa. Aryna Sabalenka è l’ultimo nome ad essersi aggiunto ma probabilmente verrà penalizzata dalla brevissima distanza temporale tra la sua recente prova di forza e l’imminente esordio a New York. Certo, dovesse giocare i prossimi 20 Slam con la foga con cui è scesa in campo a New Haven è improbabile non ne vinca almeno uno, ma lo si è detto anche di diverse giocatrici che non ce l’hanno (ancora) fatta.
C’è materiale per attendersi un bel torneo. I due campioni in carica – Nadal e Stephens – sono in salute e possono sperare di difendere il titolo: tra le donne non accade da quattro anni (Serena), tra gli uomini da dieci (Federer). Lo spagnolo non ha neanche mai difeso uno Slam sul veloce, dovesse riuscirci chiuderebbe ogni discussione sul tennista dell’anno. Accadrebbe lo stesso in caso di eliminazione prematura degli altri due slammer stagionali Federer e Djokovic, che è riuscito in un paio di mesi a trasformarsi da anonimo frequentatore dei campi a serio pretendente per l’ultimo Slam. Dovesse vincere lui, con due Major e (almeno) un 1000 – l’unico che gli mancava, eccetera eccetera – vinti sarebbe dura non appiccicare la sua foto sulla copertina del 2019, qualsiasi dovesse essere il parere definitivo del ranking.