Federer, lezione a Kyrgios. Nadal-Anderson più vicini (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)
L’altro giorno Roger Federer era stato secco nel liquidare il caso dell’arbitro Lahyani sceso dal seggiolone per confortare Nick Kyrgios: «Non doveva succedere e avete la mia parola: non accadrà mai più». Ieri lo svizzero si è occupato direttamente dell’australiano: i primi due set li ha archiviati 6-4 6-1 in 1h01′ con un solo piccolo rischio, quando ha salvato 4 break-point nel 7° game. Il momento clou del match quando il Kid di Canberra, sotto 6-4 3-0, spiritosamente dice: «Ho bisogno di un arbitro che mi alleni». Il suo passaggio agli ottavi degli Us Open, che ha vinto cinque volte consecutive ma l’ultima dieci anni fa, è stato meno intenso di un allenamento: 43′ per completare il terzo set e chiudere la pratica con 51 vincenti e appena 8 punti concessi con la prima. Altra storia per Rata Nadal e Kevin Anderson, impegnati duramente dai loro avversari la notte precedente. Lo spagnolo si era alzato in piedi sudato e a torso nudo e insieme al resto dell’Arthur Ashe aveva applaudito Karen Khachanov, numero 26 del mondo. Una benedizione pubblica che non capita spesso. Il numero uno che rende onore a un ragazzo della banda Next Gen per avergli fatto trascorrere brutti momenti. Perché contro il moscovita con il pallino degli scacchi, Rafa ha rischiato. Era andato sotto di un set e l’aveva spuntata nel secondo nonostante avesse lasciato due volte la battuta e il rivale avesse servito per il parziale sul 5-4. Poi aveva chiuso a suo favore il tie-break del terzo e del quarto. Ma quanta sofferenza per il campione in carica. Una maratona spettacolare di 4h23′: il match più lungo dello spagnolo in carriera agli Us Open. E allora Nadal elogiava chi gli aveva fatto venire il batticuore: «Ma avete visto? È migliorato in tutti gli aspetti, è giovane, possiede un arsenale di colpi favoloso. Gli pronostico un grande futuro». Una coincidenza che simultaneamente l’altro finalista del 2017, il sudafricano Kevin Anderson, stesse trascorrendo gli identici brutti momenti contro un altro dei fenomeni del prossimo futuro: Denis Shapovalov. Un altro russo, se pure solo di origine, perché Shapo è nato a Tel Aviv da genitori fuggiti da Mosca ma cresciuto in Canada. Il ragazzino numero 28 del ranking ha portato al 5° set il numero 5 del mondo. Che lo ha incensato: «Gioca un tennis eccitante. Mai affrontato, però mi ero allenato con lui a Toronto. Deve completare la sua maturazione, ma il futuro gli appartiene». E lui di maturazione è un esperto, visto che gli ci sono voluti anni per sfondare. Fino al 2014 Kevin era solo un gigante di oltre due metri con servizio da bombardiere. Era rimasto ai margini dell’eccellenza, ma nel 2015 era entrato per la prima volta nei top 10. Una serie di infortuni ne aveva poi frenato la rincorsa. Solo nel 2017, ormai guarito, è esploso: finale qui con la classifica più bassa di un finalista dal 1973. E la conferma in questo straordinario 2018: ottavi a Parigi, finale di Wimbledon, trionfo a New York a febbraio e il mese scorso la semifinale di Toronto. Il suo grande salto? «Merito anche dello psicologo Alex Castorri. Mi ha detto: “Vai in campo leggero come se invece della racchetta imbracciassi la chitarra, la tua passione: coinvolgi il pubblico come fosse un concerto rock”». Fatto. Per la cronaca, Castorri ha rimesso a posto la testa a Murray e alla Halep prima che vincessero il loro primo Slam. Nadal spiega che vittorie come quelle di venerdì pomeriggio sono fondamentali: «Perché ti infondono grande fiducia e ti fanno sentire più forte. Superare fasi così complicate è quasi una necessità». Il ginocchio fasciato? «Dei guai fisici parlo a fine torneo»… [SEGUE].
Completo e solido, Del Potro ora sogna (Paolo Bertolucci, Gazzetta dello Sport)
Un viaggio all’inferno e ritorno, una carriera riacciuffata dalla voragine più profonda. Questo in sintesi il percorso che ha dovuto affrontare Juan Martin Del Potro per tornare a primeggiare ad alto livello e issarsi sul terzo gradino del ranking mondiale. In barba ai gravi infortuni che ne avevano messo a rischio il futuro, testardo come un mulo l’argentino non si era rassegnato a vivere nell’ombra e a accettare un ruolo di secondo piano. Lui voleva tornare a ricoprire quel ruolo da protagonista consono al suo valore. Con grande fatica è tornato a sentire la colonna sonora delle sue frustate, ha ripreso a martellare gli angoli e ritrovato la pesantezza di palla. Juan Martin si è sempre distinto come un creatore di gioco e con il micidiale dritto, ben supportato dal potente servizio, traccia con determinazione le linee tattiche. Ha ritrovato il modo di assemblare al meglio la tecnica esecutiva con la continuità mentale e sfrutta al meglio, nella fase difensiva, l’ampio compasso delle gambe per coprire il campo… [SEGUE].
Federer, lezione totale a Kyrgios (Roberto Zanni, Corriere dello Sport)
Roger Federer l’aveva detto: «Con me non succederà». Si riferiva all’intervento galeotto dell’arbitro Mohamed Lahyani che aveva risollevato Nick Kyrgios nel secondo turno. Ieri però l’australiano, di giudice sceso dalla sedia, ne avrebbe avuto bisogno più di uno per cercare di ritrovarsi. Troppo lontano Federer che ha “giocato” con il bad boy come e quanto ha voluto. Anche atleticamente: c’erano davvero 14 anni di differenza (37 contro 23)? Recuperi incredibili, palle riprese quando sembrava impossibile anche per il migliore centometrista compresa quella che ha aggirato il sostegno del net lasciando increduli tutti, avversario compreso. Così l’imperturbabile Roger ha dominato: 6-4, 6-1, 7-5 in 104 minuti. «Davvero molto felice di aver vinto, felice che siano stati tre set – le prime parole di Federer – All’inizio è stato difficile trovare il ritmo, però mi piace giocare contro Nick, ti porta al limite ed è divertente anche per l’avversario». E quell’incredibile palla passata accanto al sostegno della rete? «Ci sono andato per quello, quindi penso di essermelo meritato». L’equilibrio nel primo set è durato fino al 4-4, poi il nono gioco ha in un certo senso deciso le sorti dell’incontro. Federer alla battuta, Kyrgios capace di portarsi sul 40-0, ma tre palle break, più un’altra conquistata successivamente, sono state brutalmente annullate dallo svizzero. Un game durato 9’16” che ha consumato l’australiano che, compreso il 5-4 ha poi perso di fila sette giochi fino al 5-0 del set successivo. Una seconda frazione che è volata via in 25′ minuti, mentre la precedente ne aveva avuti bisogno di 36′ (al termine della quale Kyrgios, probabilmente riferendosi al suo staff, si lamentava della prima palla di servizio). «Soffro ogni volta» aveva detto Norlaila Kyrgios, la mamma, appena iniziata la partita, ma ieri sicuramente è stato anche peggio nonostante un terzo set durante il quale il bad boy ha ritrovato i colpi, ma quando Re Roger all’undicesimo gioco ha deciso che era il momento del break è stato cosi: 6-5, poi il 7-5 (a zero) sul proprio servizio (87% vincenti sulla prima palla)… [SEGUE].
Roger gioca da solo (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Basta un break per spegnere Nick Kyrgios, e se così fosse, non soltanto contro il suo tutore Roger Federer ma sempre, allora sarebbe giunto il momento per l’australiano di farsi un esame di coscienza Perché qui non si tratta delle solite accuse di essere un gran maleducato, di sprecare il proprio talento, di lasciarsi andare ad atteggiamenti che sfiorano (e qualche volta superano) i limiti della mancanza d’impegno, ma di non avere le idee chiare rispetto a un mestiere che lo vuole tutti i giorni in campo, sempre presente a se stesso, sempre in grado di rispondere al meglio. Questo, ieri, Kyrgios non l’ha dimostrato e ha finito per facilitare la strada a Federer, che non aspettava niente di meglio e che forse ne aveva pure il bisogno, viste le prime uscite un po’ claudicanti questo avvio di Us Open. Quel break, l’australiano lo ha subito sul 4 pari del primo set, e da lì ha fatto scena muta fino al 5-0 del secondo, sette game filati senza reagire. Lì si è rimesso in pista, ha strappato un game prima che Federer chiudesse il conto. Poi ha ritrovato un po’ di spinta e ha finito per mettere insieme un set più o meno alla pari nella terza frazione. Male, però. Tant’è che la quarta partita fra i due (Federer era in vantaggio 2-1) è uscita dai canoni delle altre, e non c’è stata la solita alternanza di tie break che le aveva contraddistinte. In nove set giocati fino a questo confronto, le conclusioni al “jeu decisif” erano state otto. Ieri, nessuna. A ribadire che il servizio di Kyrgios non è stato centrato come sempre (16 a 13 gli ace, per Federer), spesso contratto e un po’ involuto. Non a caso Federer ha avuto palle break anche prima (sul 3 pari del terzo) e ha disposto del gioco senza grossi problemi. Un match da 51 vincenti e 24 errori non forzati, che regala a Federer un pizzico di tranquillità in più verso un ottavo di finale che lo vedrà di fronte a Millman, l’australiano che ha sfibrato Fognini e ieri anche Kukushkin, in buona forma ma non di grande lignaggio. La sensazione è che questo terzo turno abbia rilanciato le voglie di Federer e Nadal. «Vivo alla giornata», dice Federer, ma sa che l’ostacolo superato è di quelli che avrebbe potuto causargli ben altri problemi. Lo stesso pensa Rafa, uscito nella notte di venerdì da un confronto da brividi contro Karen Khachanov, durante il quale è parso a lungo in bilico sotto i violenti spintoni che gli ha mollato il russo alto come Del Potro, che gioca come Del Potro, che riempiva la sua stanza da ragazzino con i manifesti di Del Potro, e che oggi – dai e dai… – sembra davvero il clone dell’argentino. «Sono i match come quello vinto contro Khachanov a indicare la strada giusta. Il tennis è fatica, a volte dolore, quasi sempre emozione. Le rimonte ci stanno, fanno bene». Rafa ne ha compiuta una davvero complicata, dopo che il russo gli era scappato via nel primo set («Giocavo bene, ma lui ha cominciato a forzare il servizio, e insomma, guardatelo, è uno alto due metri…») e si era portato avanti di un break anche nel secondo. Ma sul 5-4 il tennis del numero uno è tornato a sgorgare impetuoso, l’attenzione negli scambi è diventata tale da costruire una muraglia intorno al russo. Sono momenti cui i giovani del tennis (Karen ha 22 anni appena, in fondo) devono abituarsi e non è così facile farlo. Scoprono che i più forti, in certi momenti, hanno un modo di stare in campo che raddoppia le forze, come se qualcosa di mistico li spingesse. Sono momenti che sconcertano, e forse impauriscono… [SEGUE].
Diritti e afroamericani. La missione di Serena adesso va oltre la rete (Stefano Semeraro, La Stampa)
Il molto atteso trentesimo match in carriera contro sister Venus si è risolto in un abbraccio, due set senza storia, 6-1 6-2, e una foto da postare su Twitter. Nessuna esultanza, come i bomber del calcio che non vogliono irritare le ex tifoserie amiche, perché la famiglia è la squadra più grande. E poi perché Serena Williams è in missione per conto di qualcosa di più largo del tennis. La numero 1 e 2 del mondo sono già volate fuori dal torneo, lei inizia già a sentire odore di 24° Slam (il record di Margaret Court), di settimo trionfo a New York. Guai però a trascurare l’impegno multitasking della principessa-guerriera alla quale lo sponsor questo giro ha disegnato addosso un tutù da battaglia. C’è da curare l’hashtag #thismama, con cui Serena vuole ispirare le mamme-lavoratrici raccontando i suoi piccoli drammi quotidiani di madre di Alexis Olympia: se ce la posso fare io, sorelle, potete farcela anche voi. C’è da tenere alta la torcia: da campionessa-modello, da sportiva impegnata quando-serve. A fianco di tutte le donne, in favore delle lotte civili e per i diritti degli afroamericani. L’occasione venerdì sera l’ha fornita la presenza in tribuna di Colin Kaepernick, il molto controverso quarterback dai capelli esplosi che nella Nfl ha lanciato la moda di inginocchiarsi prima delle partite durante l’inno americano, protesta silenziosa contro le violenze della Polizia americana nei confronti dei neri. Uno che sta sullo stomaco a The Donald e ai nazisti dell’Illinois, ma che sarebbe piaciuto a Martin Luther King, assassinato proprio 50 anni fa, e ad Aretha Franklin, ai cui funerali l’altro ieri si sono ritrovate e abbracciate la comunità nera e l’America anti-Trump. Nel 2013 Kaepernick aveva guidato i San Francisco 49ers al SuperBowl, ma dal 2017 non trova più una squadra e ha portato in tribunale la Nfl accusando i proprietari dei team di boicottarlo. Giovedì un arbitrato ha stabilito che ha tutto il diritto di farlo. «Io penso che ogni essere umano, ogni atleta, e di sicuro ogni afro-americano dovrebbe essere grato e onorato per ciò che Colin ed Eric (Reid, compagno di Kaepernick che è stato fra i primi ad appoggiare la «protesta silenziosa», ndr) stanno facendo per il bene superiore – ha detto in conferenza stampa Serena dopo la partita -. Usano la loro popolarità in maniera fantastica, e si sono guadagnati il rispetto dei loro colleghi, degli altri atleti e di chi spera in un vero cambiamento sociale»… [SEGUE].
Sergio Tacchini: “La mia rivoluzione che colorò il tennis” (Maurizio Crosetti, Repubblica)
L’uomo che inventò i gesti colorati compie 80 anni, rotondi come una palla da tennis. Sergio Tacchini scende dalle sue magliette e si racconta. È un po’ come chiacchierare col coccodrillino della Lacoste. «Difatti trent’anni fa in Francia mi chiamavano il Lacoste italiano». Ma lei ha fatto qualcosa in più: ha portato il colore sui campi da tennis. «Fu una rivoluzione. Il bianco era considerato sacro, come ancora adesso a Wimbledon. La federazione internazionale era contraria, invece i giocatori volevano la libertà di vestirsi come gli pareva. Quando, con l’arrivo dell’Atp ebbero più peso, la cosa fu possibile». Se la ricorda la sua prima maglietta colorata e che faccia fecero quelli che la videro? «In realtà era una collezione dove oltre alla canonica polo bianca ne avevamo una gialla, una azzurra e una salmone». Tutte rigorosamente in tinta unita? «Certo che si. Ma per Wimbledon m’inventai qualche trucchetto». Le maniche verdi e rosse di Connors? «Anche. Si trattava di contaminare il bianco obbligatorio con i coordinati. Bastavano, di colorato, una cintura o un bordino. Diciamo che mi vanto di aver reso personale anche il bianco». Ma questi inglesi non sono un po’ parrucconi? «Hanno saputo mantenere il rigore della tradizione, per questo li rispetto. E di sicuro non li giudico: guidano al contrario e hanno la regina..». Sono i giorni della tuta da Black Panther di Serena Williams. Che ne pensa? «Mi pare una buffonata, una specie di fesseria pubblicitaria. Lo stile non può ridursi a marketing, e non bisogna mai dimenticare la funzionalità del prodotto. Un completo da tennis deve aiutare l’atleta a giocare meglio, non solo a farsi vendere o vedere». Ma una maglietta è una maglietta. «Le spiego. Una volta inventammo la tasca particolare dei pantaloncini dove mettere la palla dopo la prima di servizio: doveva essere laterale, perché non desse fastidio al muscolo della coscia. Le rivoluzioni procedono attraverso piccole cose»… [SEGUE]. Un bel giorno lei ebbe l’idea di abbinare il prodotto al giocatore: l’intuizione di una vita? «Credo di avere inventato la sponsorizzazione quando neppure esisteva la parola per definirla. Il mio avvocato mi chiedeva cosa fosse, che significasse sponsor. Domandava, timido: è una specie di patrocinio? Per lui si trattava di regolarizzare il rapporto tra azienda e atleta, l’unico riferimento era l’America». Lei non cercò campioni qualunque. «Volevo personaggi, sapevo che avrebbero avuto più presa sul consumatore. Si trattava di vendere magliette a tutti, non solo ai tennisti che all’epoca erano poche decine di migliaia. Scelsi Nastase, Connors, fuoriclasse fuori dalle righe nel bene e nel male, ma soprattutto John McEnroe. Un amico. Per anni abbiamo festeggiato il nuovo anno a New York con le famiglie. John era unico anche quando sbraitava all’arbitro: un testimonial perfetto. Tra lui e Borg, che pure era un tennista eccezionale, avrei sempre scelto John. Lo svedese era un orso, un calcolatore che non sapeva emozionare. Per vendere prodotti e affermarsi nell’immaginario del consumatore occorre carisma»… [SEGUE]. In quegli anni la lotta tra sponsor era una questione italiana anzi piemontese, Sergio Tacchini contro Fila, e non Adidas versus Nike. «L’Adidas era già un colosso, Nike venne dopo di noi e si presentò attraverso l’atletica. Proponeva calzature tecniche e fece la differenza. Impose una produzione innovativa, pensando il prodotto negli Usa ma realizzandolo in Estremo Oriente a costi più bassi, per spedirlo in ogni angolo del mondo. La globalizzazione ha rovesciato tutto»… [SEGUE]. Sergio Tacchini, cosa vuol dire essere quella S e quella T? «Mi sento a metà strada tra una persona e un marchio, dove per marchio si intende qualcosa di identitario, di riconoscibile, un legame di fedeltà e amicizia con il consumatore. L’aspetto commerciale non è il più importante. Ci sono marchi che accompagnano la vita e ne scandiscono i ricordi. Io mi sento una cosa del genere. E credo di avere reso più popolare il tennis».