4. Le semifinaliste: Anastasija Sevastova
A Flushing Meadows abbiamo avuto una semifinalista tutto sommato prevedibile, come Madison Keys, e una più sorprendente: Anastasija Sevastova. Mai Sevastova era riuscita a spingersi tanto avanti in uno Slam. La vicenda di Anastasija è nota (ne avevo scritto QUI): nel 2013 aveva annunciato il ritiro definitivo dal tennis agonistico per problemi fisici che sembravano insormontabili. Ma dopo due anni di stop è stata in grado di tornare a giocare, e lo ha fatto con un rendimento superiore al periodo precedente. Da quando ha ripreso ad affrontare gli Slam (nel 2016), gli US Open sono stati il Major in cui ha raccolto i migliori risultati: prima due quarti di finale (2016, 2017) e ora addirittura una semifinale.
Questa sua predilezione per il Major americano non è facile da spiegare se si pensa che in carriera ha raggiunto sei finali WTA (tre vinte e tre perse), solo su terra battuta ed erba. Eppure è sul cemento di New York che ha avuto le maggiori soddisfazioni a livello Slam. E non si può nemmeno dire che abbia avuto particolare fortuna con i tabelloni, visto che questi risultati sono stati raggiunti battendo avversarie importanti: nel 2016 Muguruza e Konta, nel 2017 Sharapova, quest’anno Makarova e Svitolina. In più nell’ultimo torneo Sevastova nei quarti si è presa la rivincita nei confronti della campionessa in carica Stephens, che l’anno scorso aveva prevalso al termine di un match equilibratissimo, concluso solo 7-4 al tiebreak del terzo set.
Il bilancio complessivo di Sevastova negli ultimi tre Flushing Meadows è di 13 vittorie e 3 sconfitte: davvero notevole. In questa edizione probabilmente il picco di gioco l’ha raggiunto nel terzo set contro Svitolina (6-3, 1-6, 6-0), dove ha sfoderato tutte le sue migliori doti di costruzione dello scambio unite a quelle di tocco (palle lavorate, back, dropshot).
Non pensavo sarebbe riuscita a raggiungere la semifinale di un Major, perché ritenevo il suo tennis un po’ troppo “leggero” per permetterle di reggere il confronto nei tornei più importanti. C’è però qualcosa che non mi ha convinto del tutto nel suo ottimo Slam. Nei quarti ha sconfitto con notevole sicurezza una Stephens un po’ spenta, però poi sono rimasto perplesso per alcune scelte tattiche nella semifinale contro Serena.
Dato che partiva sicuramente battuta sul piano della potenza e dell’uno-due, pensavo avrebbe puntato a far muovere Williams in orizzontale, e ad aumentare la durata media di ogni singolo punto con l’obiettivo di mettere in difficoltà Serena sul piano della resistenza. E per far questo immaginavo avrebbe fatto ricorso a molti slice (che Sevastova sa usare con profitto) confidando nel fatto che sono complicati da attaccare e trasformare in vincenti diretti. Invece, anche quando riusciva a entrare nello scambio, Anastasija ha diverse volte cercato lei per prima di concluderlo. A volte spingendo i colpi oltre il suo solito, altre volte ricorrendo alla smorzata; un colpo che Sevastova esegue bene, ma che se è utilizzato quando l’avversaria è a ridosso della linea di fondo difficilmente può diventare imprendibile. Alla fine questi dropshot sono risultati controproducenti, per diverse ragioni: non solo perché si sono trasformati in errori diretti o in recuperi vincenti di Serena, ma anche perché hanno finito per rendere gli scambi più brevi di quello che avrebbero potuto essere. Il 6-3, 6-0 certifica non solo la forza di Williams ma, probabilmente, anche una interpretazione del confronto non lucidissima da parte di Sevastova.
5. Le semifinaliste: Madison Keys
Per il secondo anno consecutivo Madison Keys è risultata protagonista dello Slam americano. Nel 2017 era stata finalista, quest’anno si è fermata in semifinale, sconfitta per la prima volta (dopo tre successi nei precedenti match) dalla futura vincitrice Naomi Osaka.
Nei confronti di Keys la mia valutazione è articolata. Da una parte i risultati nei Major sono complessivamente positivi. Infatti negli ultimi cinque Slam, è arrivata quasi sempre in fondo: finale agli US Open 2017, quarti di finale agli Australian Open 2018, semifinale al Roland Garros, terzo turno a Wimbledon, semifinale a New York. Una costanza ad alti livelli che nessun’altra giocatrice è riuscita ad avere.
Però oltre i risultati ci sono le prestazioni, le partite e il loro andamento. E da questi aspetti ricavo un giudizio meno positivo. Dopo la finale persa malamente l’anno scorso contro Stephens (6-3, 6-0) ho infatti l’impressione che Keys affronti le partite decisive degli Slam con meno convinzione, come se fosse lei stessa la prima a pensare che, in un modo o nell’altro, il torneo non lo vincerà. La sensazione di ineluttabilità della sconfitta è doppiamente negativa: perché non solo deprime Madison, ma sono convinto che la percepiscano anche le avversarie; e non c’è nulla di peggio che scendere in campo in condizioni di inferiorità psicologica. Le conseguenze le abbiamo verificate nel 2018: in tutti i match importanti appena le cose non si sono messe bene, e Keys ha perso il primo set, la sconfitta sembrava ormai scritta, ed è puntualmente arrivata. Le 13 palle break su 13 salvate da Osaka in semifinale sono senza dubbio un grande merito di Naomi, ma risultano anche un segnale preoccupante per Madison.
Per questo, più che fare ragionamenti tecnici o tattici, penso che per lei sia necessario provare a modificare qualcosa sul piano mentale. È davvero una enorme disdetta, per lei e per l’intera WTA, che un talento raro come il suo si perda per la scarsa fiducia in se stessa. Eppure stiamo parlando di una tennista ancora giovane, di appena 23 anni (è nata nel febbraio 1995). Forse è arrivato uno di quei momenti di carriera in cui ci si domanda se non vadano fatti dei cambiamenti per provare a dare un indirizzo diverso al proprio futuro.