Ci sono le giovani promesse del tennis e poi ci sono i giovani tennisti russi. Per una ragione quasi ancestrale, che affonda le radici direttamente nella cultura (sportiva, ma non solo) russa, vanno analizzati con altri parametri e meritano quasi una diversa indulgenza. Se hanno un carattere un po’ fumantino, se in campo faticano a contenere il loro tennis entro i limiti dell’efficacia, li si inquadra come ereditieri dell’impareggiata (e forse impareggiabile) follia di Marat Safin e si scuote il capo, speranzosi, azzardando un ‘Vabbè, sono russi‘.
È anche una questione di produttività e di contributo al tennis. Al momento solo gli Stati Uniti, al pari della Russia, possono vantare tre under 23 in top 100. Certo la capacità di suscitare entusiasmi di Tiafoe, Fritz e Mmoh (che ha appena fatto il suo esordio in top 100) non può essere la stessa di Karen Khachanov (n.24 ATP), Daniil Medvedev (n.32) e Andrey Rublev (n.68), che in circostanze diverse hanno mostrato di poter viaggiare al ritmo dei più forti. Giova ricordare che sangue russo scorre anche nelle vene tedesche di Zverev e canadesi di Shapovalov, rispettivamente a una e due spanne dai big, e che appena fuori dalle prime 200 posizioni del mondo riposa il 20enne Aleksandr Bublik, ultimo rinforzo della campagna acquisti del Kazakistan prima che la Russia decidesse che forse era il caso di tenere in piedi una squadra decente per la Davis e smettesse di farsi scippare i tennisti. Tempismo perfetto, dal momento che la Davis a breve non esisterà più.
Ritornando all’eredità di cui sopra, nessuno dei cinque sopracitati – da Khachanov al piccolo ma terribile Bublik – vincerebbe la statuetta per il miglior autocontrollo sul campo. C’è chi, però, sta imparando. Daniil Medvedev non ha sempre avuto quest’espressione imperscrutabile capace di lasciarsi sobillare, apparentemente, solo da Tsitsipas e dalla giudice di sedia Mariana Alves, rea (a suo dire) di avergli rovinato la partita con Bemelmans al punto da indurlo ad aprire il portafogli e lanciarle delle monetine in ‘presumibile segno di sommo disprezzo‘. Tutto a Wimbledon eh, mica al torneo sociale di Casalpusterlengo.
Lo nunca visto: Daniil Medvedev lanzó monedas a la juez de silla tras su derrota. #WimbledonMovistar pic.twitter.com/qbf3n78uM6
— Tenis en Movistar Plus+ (@MovistarTenis) July 5, 2017
C’è stato un tempo in cui Daniil Medvedev era persino più incontrollabile di così. “Non sono certo la persona più calma del mondo”, profetizzava il russo proprio pochi giorni prima del lancio delle monetine. “Nella mia carriera ho avuto un po’ di problemi, soprattutto da junior dove ti squalificano per un mese se commetti dieci violazioni”. Lui riuscì ad accumularne tante da star fermo cinque mesi, come ha raccontato Tennisitaliano. Soprattutto da junior dice Daniil, ma non solo. Nel 2016 fu capace di farsi sbattere fuori dal challenger di Savannah per aver insinuato che il suo avversario Donald Young fosse spalleggiato dalla giudice di sedia, anche lei di colore: razzismo alla base della messa in discussione dell’imparzialità di Sandy French, tuonò USTA per giustificare la squalifica.
Di cose, insomma, ne ha combinate il 22enne nato a Mosca, soprattutto nel periodo in cui aveva deciso di mascherare il suo talento con un’attitudine largamente perfettibile. Il suo coach Gilles Cervara gli chiedeva se stesse dando il 100%, lui rispondeva di sì e Cervara gli suggeriva di lasciar perdere perché se quello era il suo massimo, beh, sarebbe andato poco lontano. Mangiava senza regole e prestava scarsa attenzione alle pratiche di recupero dopo gli incontri. Il punto di svolta è arrivato lo scorso anno a Shanghai quando maestro e allievo hanno avuto un acceso diverbio a proposito della condizione fisica di Medvedev. Daniil si è sentito messo alle strette e ha accettato di iniziare a compilare due volte al giorno un questionario su come si sente, perché il suo staff possa sapere se, come e quando intervenire. Clic.
I mesi successivi raccontano come il tennis sia uno sport che poggia, tutto sommato, su concetti semplici (da identificare, non certo da mettere in pratica). Se hai un buon talento, presti attenzione alla tua routine giornaliera e ti circondi delle persone giuste che ti aiutano a dare una direzione ai tuoi allenamenti, i risultati prima o poi arrivano. Medvedev ha ricevuto un grosso impulso dal titolo di Sydney a inizio stagione, poi non si è lasciato abbattere dai cattivi risultati sul rosso – superficie che non arriverà mai ad amare – né dalla necessità di giocare spesso le qualificazioni (vi è stato costretto in cinque occasioni e le ha sempre superate, ultima delle quali questa settimana a Tokyo) e ha sollevato il trofeo pluri-puntuto di Winston-Salem, curiosamente ancora nella settimana che precede uno Slam.
Se ne deduce che gli serve un fondo rapido per essere insidioso. A Wimbledon ha sfiorato gli ottavi perdendo una partita rocambolesca contro Mannarino, altro discreto interprete dei prati, ma una volta ricominciato il cemento ha fatto persino meglio: da Toronto a Tokyo, dove è ancora in gioco, ha vinto ventidue partite (qualificazioni comprese) e ne ha perse soltanto quattro per rompere la barriera della top 30 (vi entrerà ufficialmente lunedì), trovando nel frattempo anche il tempo di sposarsi. Ci è riuscito accoppiando a una presenza atletica finalmente convincente un tennis forse non bellissimo da vedere, ma certamente scomodo da affrontare.
In realtà, poi, quello di Medvedev non è un cattivissimo tennis. Non c’è l’ombra di una rotazione (è questo il motivo principale per cui la terra battuta gli provoca allergia) ma solo traiettorie molto tese, più che fulminanti di difficile lettura. In particolar modo il russo tende quasi a insaccarsi sulla palla, colpendo con quel pizzico di ritardo che impedisce all’avversario di farsi un’idea sul colpo che arriverà. Lo fa soprattutto con il rovescio, esecuzione personalissima e quasi goffa a vedersi che risulta però terribilmente efficace. Ha un buon servizio e sebbene da fondo non abbia colpi per spaccare la partita, ‘possiede’ il campo con buona disinvoltura e sa cercare gli angoli con la giusta dose di rischio. Ogni tanto perde il dritto, ma visti i trascorsi è sempre meglio che perdere la testa.