Il parere opposto di Gibertini – Tie-break sul 12-12? Patetica soluzione di compromesso
Wimbledon sarà sempre più unico. E a molti darà fastidio. I vertici dello Slam londinese, nella persona del presidente Philip Brook, hanno annunciato che a seguito di un’analisi degli incontri delle ultime edizioni e del consulto con le parti interessate, dal 2019 il quinto set verrà deciso dal tie-break che si giocherà però sul 12-12 e non sul 6-6 come avviene allo US Open, l’unico Slam che non ammette l’oltranza al quinto set. D’altra parte gli inglesi chiamano il loro torneo, altezzosamente, “The Championships” come se di campionati (o tornei) non ce ne fossero altri altrettanto degni di tal nome.
Se gli inglesi non si caratterizzassero sempre per scelte autarchiche, sarebbero più simpatici a tutti. La guida a sinistra, la sterlina, la monarchia, la common law ben prima della Brexit… (su quest’ultima però pare che anche l’Italia dei 5 Stelle e della Lega in crescente popolarità, nonostante le critiche pesanti di economisti, giornalisti e varie intellighenzie, non sia più così né scandalizzata né critica).
Ciò detto bisogna dare atto agli inglesi, almeno nel tennis e non solo da quando il maggiore Wingfield brevettò il gioco, anche di avere avuto spesso l’occhio lungo. Di aver sempre amato e rispettato le tradizioni, ma anche di essere essere stati capaci di innovare, quando necessario. Come quando aprirono per primi il tennis ai professionisti, al tennis nel ‘68 appunto “open” sconfiggendo quell’ipocrita distinzione fra professionisti ufficiali e professionisti del sottobanco. E poi – dopo l’accettazione del tie-break del miliardario americano di Newport Jimmy van Alen nel loro tempio (“I match infiniti sono una tortura urologica!”), sia pure all’inizio recalcitrante: il primo tie-break all’All England Club venne giocato sull’8 pari nel 1971, per poi giocarlo sul 6 pari a partire dal ’79 in piena era Borg-McEnroe – l’introduzione nel 1980 del Cyclop (che faceva infuriare McEnroe: “Quella macchinetta ce l’ha con me!”) e nel 2007 dell’Hawk Eye, l’Occhio di Falco, che ha rappresentato certamente una grande e importante svolta tecnologica. Con il tennis antesignano per tutti gli sport che hanno poi adottato vari controlli tecnologici di simil fattura.
Il tennis sull’erba è oggettivamente un tennis diverso da quello che si gioca sulle altre superfici. Anche se l’erba non è più quella di una volta. Tanto che Gianni Clerici l’ha ribattezzata erba battuta e in tanti lo scopiazzano senza attribuirgli il copyright. Ma resta diversa. Non è un fattore snobistico sottolinearlo. Perfino le scarpe adottate dai giocatori sull’erba sono diverse. È un fatto, non una teoria. L’incidenza del servizio ha fatto sì che sull’erba più che su qualsiasi altra superficie, compresi i campi indoor in cemento che sono stati anch’essi rallentati negli anni, si siano distinti i veri specialisti (i cosidetti “erbivori”) e al contrario i…”Negati” (come tanti terraioli d.o.c, spagnoli, sudamericani, italiani!) che hanno reso quasi necessario nel terzo millennio un sistema di compilazione delle teste di serie anomalo, legato cioè alla performance dei vari giocatori nei tornei disputati sull’erba in un periodo circoscritto anziché all’asettico ranking stabilito dal computer ATP (come accade per tutti gli altri tornei)
E sull’erba si sono visti molti più quinti set interminabili che da qualsiasi altra parte. Tali quindi da giustificare, ai miei occhi, una trattazione diversa rispetto agli altri tornei.
Quando questi quinti set si sono registrati nelle fasi finali di un torneo sono rimasti certo più memorabili. Ci sono stati incontri certo straordinari finiti 7-6 al quinto anche all’US Open – l’unico dei 4 Slam con il tie-break al set decisivo – e non dico di no. Ma se andate in giro a chiedere quali siano stati, vedrete che anche il lettore più informato farà molta più fatica a ricordarli piuttosto che il celeberrimo 70-68 di Isner-Mahut, ma anche il 16-14 di Federer-Roddick finale di Wimbledon 2009, i due 9-7 al quinto di Ivanisevic Rafter 2001 e Nadal-Federer 2008, ma anche di Drobny e Rosewall nel ’54 ho sempre sentito parlare (insieme a tanti altri dell’epoca ante-Open), così come del celeberrimo Gonzales-Pasarell di 112 game con l’ultimo set chiuso sull’11-9 nel ’69 (ma c’era stato il 22-24 del primo set e il 16-14 del terzo a trascinare il match a 5 ore e 12 minuti, seconda maratona di sempre dopo le 11h e 5m di Isner-Mahut nel 2010).
A spingere gli inglesi a “accorciare” il tiebreak al quinto, ma senza però cancellarlo del tutto il long set, sono certo stati il match di semifinale di Anderson con Isner 26-24 quest’anno, il Cilic-Querrey di Wimbledon 2012 (17-15) e quel20-18 di Philippoussis con Schalken (ma era un terzo turno) nel 2000. Lascio stare altri tornei, come l’Australian Open dove ricordo un Roddick-El Ayanoui 21-19 al quinto, quel Roland Garros 16-14 al quinto “fratricida” fra Clement e Santoro. Ma, insomma, negli altri Slam sono state vere eccezioni. Sull’erba no.
Per questo motivo, e senza nemmeno ricordare le maratone al quinto set di centinaia di incontri di doppio dove il servizio ha un’incidenza ancora maggiore – stavo per fare un refuso: indecenza invece di incidenza (lapsus freudiano?) – ritengo che la decisione degli inglesi di accorciare il quinto set sia più che giustificata. Chi ha vinto una maratona, che non avvenisse in finale, ha (quasi) sempre perso al turno successivo. E non è giusto che ciò accada. Può falsare un intero torneo.
Al tempo stesso interrompere un match già sul 6 pari, come si fa negli altri tornei e Slam, sull’erba è un po’ un coitus interruptus (o una eiaculatio precox?). Arriva davvero troppo presto in match, set e game dominati molto spesso dal servizio, a volte con nessuna palla break o quasi, e 3 o 4 tiebreak su 4. Perché già trovare i due giocatori al quinto set è sintomo di notevole equilibrio. Ritrovarli sul 6 pari al quinto lo è ancor di più. Strappare brutalmente quell’equilibrio con un tie-break che può essere deciso anche da un solo mini-break (un net, una corda di racchetta che si rompe, un errore arbitrale, una scivolata) non mi sembra giusto, né equo. Può trasformarsi in un gioco d’azzardo, dove la componente fortuna è davvero troppo forte.
Che alternativa avevano a Wimbledon per contemperare le varie esigenze, accorciare ma non troppo? Forse fare il tie-break già sul 9 pari, ma sarebbe apparsa ancor più la classica mossa degli inglesi che vogliono essere diversi, che vogliono fare le cose a modo loro, più per distinguersi che per altro. Per questo tutto sommato, pur soffrendo interiormente per modifiche del genere – perché da amante dei numeri e delle statistiche queste decisioni sui risultati alterano un po’ tutto il pregresso e costringono tutti a mettere degli asterischi alle annate per segnalare un cambiamento più o meno epocale dei risultati – non imputo agli inglesi stavolta l’atavico desiderio di essere diversi da tutti gli altri tornei. I tornei sull’erba sono realmente diversi. Punto. Per me hanno fatto bene. E spero di essere riusciti a convincerne anche i lettori.