Il parere opposto del Direttore – Capisco Wimbledon e dico no al ‘coitus interruptus’
Era prevedibile che l’All England Club avrebbe fatto qualcosa per limitare la lunghezza dei set, dopo che il 26-24 al quinto tra Isner e Anderson dell’ultima edizione ha di fatto privato i Championships di una finale degna di questo nome. Si sa, nonostante l’ossessione per le tradizioni, la cultura britannica è comunque imperniata sul pragmatismo, ed il loro sistema legale della ‘common law’ incoraggia il “trial and error”, quell’andare per tentativi per trovare una normativa di equilibrio delineata dalle esperienze passate.
Se di questo si tratta, di uno di quei “trial” che servono per arrivare alla decisione giusta, allora potrei anche essere d’accordo con questa decisione di adottare il tie-break nel set decisivo sul 12-12. Perché altrimenti mi sembra solamente una patetica soluzione di compromesso che davvero poteva essere evitata. Il tennis come sport ha adottato il tie-break (sacrosanta e mai abbastanza benedetta invenzione dell’americano Jimmy Van Halen) sul punteggio di 6-6, dopo vari tentativi e variazioni che avevano portato il torneo di Wimbledon (sempre loro, che vogliono mantenersi diversi dagli altri) ad adottarlo sul punteggio di 8-8 (ma solo nei set che non potevano dare la vittoria ad uno dei due contendenti) per un breve periodo, dal 1972 al 1978. Da quasi quarant’anni, quindi, il tie-break si gioca sempre sul 6-6, e per l’integrità e la coerenza del gioco sarebbe stato opportuno mantenere questa regola.
Nei tornei dello Slam il tie-break nel set decisivo è stato adottato finora solamente dagli US Open, che hanno preferito abbandonare il fascino della tradizione per il pragmatismo della coerenza. Certo a Forest Hills prima ed a Flushing Meadows poi non si sono mai viste quelle maratone al set conclusivo che sono passate alla storia degli altri Major: dal 70-68 di Isner e Mahut a Wimbledon 2010, al 23-21 di Roddick contro El Aynaoui agli Australian Open 2003; dal 10-8 di Monica Seles contro Steffi Graf nella finale del Roland Garros 1992, al 16-14 di Federer contro Roddick nella finale dei Championships 2009, giusto per citarne alcuni. Ma gli incontri davvero memorabili degli US Open sono ugualmente impressi nella memoria degli appassionati anche se non si è arrivati “in doppia cifra” nel numero dei game.
In cima alla lista c’è sicuramente la vittoria di Jimmy Connors contro Aaron Krickstein negli ottavi di finale dell’edizione 1991, quella nella quale Connors arrivò in semifinale durante le due settimane che lo videro spegnere 39 candeline. Reso celebre a generazioni di appassionati americani dalla CBS, che lo ha ritrasmesso a ciclo continuo per anni durante ogni interruzione per pioggia, il match segnò la vittoria più iconica per Connors in quella edizione in quanto ottenuta nella canicola della sessione diurna (tutti gli altri suoi match furono programmati di notte) contro un avversario che aveva la meritata fama di maratoneta, con un record fino a quel momento di 18 vittorie e 5 sconfitte al quinto set. Se si fosse andati ad oltranza, forse l’anagrafe avrebbe avuto la meglio di “Jimbo”, che rendeva 15 anni al suo più giovane avversario, e la favola della sua rincorsa alla semifinale diciott’anni dopo la sua prima vittoria non si sarebbe concretizzata.
Ma non c’è certamente solo quel ‘7-6 conclusivo’ ad aver fatto la storia: come non ricordare la semifinale femminile del 1986 tra Martina Navratilova ed una diciassettenne Steffi Graf, che perse 6-1, 6-7, 7-6 dopo aver avuto due match point nel tie break decisivo, segnando il primo capitolo di una rivalità che ci avrebbe regalato due finali di Slam l’anno seguente. Oppure due anni prima la vittoria di Ivan Lendl su Pat Cash nella prima semifinale di quella giornata che ribattezzò il secondo sabato degli US Open il “SuperSaturday”: cinque set tra Lendl e Cash (con il ceco che annullò un match point a sfavore con un magnifico lob liftato di diritto), tre set tra Chris e Martina per la finale femminile, ed altri cinque set tra Connors e McEnroe nella seconda semifinale maschile che durò tanto a lungo da far infuriare Dan Rather, il famoso anchor man della CBS, il quale indignato per essere stato ritardato dal tennis abbandonò lo studio del telegiornale e causò un inedito “buco” di sette minuti nella programmazione del network americano. Impossibile inoltre dimenticare il quarto di finale del 1996 tra Sampras e Corretja, nel quale il campione americano diede di stomaco in campo sull’1-1 del tie-break decisivo e finì poi per vincere il match e di seguito il torneo.
A nostro avviso non si vede la necessità di dover arrivare a 12-12 nel set finale prima di porre fine alla contesa con un tie-break, anche perché in questo modo si impone comunque ai protagonisti di giocare virtualmente un ulteriore set oltre ai cinque (o tre, nel caso di match femminili) già giocati, potenzialmente rendendo del tutto inutile la motivazione principale che suggerisce la disputa del tie-break anche nell’ultimo set, ovvero la necessità che quel match non elimini due giocatori anziché uno. Ricordiamo infatti che John Isner, dopo il famoso 70-68 al primo turno contro Mahut, dovette scendere il campo il giorno dopo contro Thiemo de Bakker e perse in tre set rapidissimi mettendo a segno zero aces; più recentemente, Roger Federer venne prosciugato dal 16-14 al terzo set della semifinale olimpica di Londra 2012 contro Del Potro, tanto da cedere in tre rapidi set a Murray nella successiva finale per l’oro; e naturalmente quest’anno il 26-24 di Kevin Anderson su John Isner drenò talmente tanto il sudafricano dal punto di vista fisico che quasi non giocò i primi due set della finale con Djokovic.
In definitiva: il tie-break nel set decisivo ormai è necessario, per assicurare che ci sia un solo sconfitto e non due e per mantenere la partita entro durate televisivamente possibili. Ma la sua adozione sul 12-12, oltre ad essere un superfluo vezzo di originalità di cui Wimbledon non ha voluto privarsi, potrebbe rischiare di risultare inefficace a risolvere i problemi stessi che hanno suggerito questo cambiamento.
Il campo, come al solito, darà il responso; c’è da sperare che l’All England Club avrà il coraggio di un’altra iterazione di modifiche, se dovesse essere necessaria.