Ernests Gulbis è un tipo simpatico, o quantomeno lo è per molti. Senza dubbio per molti giornalisti che lo intervistano ed estraggono dalle sue parole pepite d’oro che il Klondike a confronto sembra un campo di patate. Ma se si scrive di Ernests, si corre il rischio che Ernests si scriva da solo. Sul web si trovano con la stessa facilità gli aforismi del tennista lettone e quelli di Oscar Wilde, il quale di Ernests ne sa qualcosa. Il fatto ci dimostra che oltre ad essere un chiacchierone, l’Ernests tennista è anche autocosciente. È questo, a mio parere, che lo rende simpatico. Eppure se si scava nella sua biografia (o autobiografia se si incappa nell’errore di farlo parlare) non si direbbe che con quel curriculum Gulbis possa attirare pacche sulle spalle. In essa si legge che in una partitella a basket avrebbe stoppato Ivo Karlovic al tiro, il che è rilevante. Ma si legge soprattutto che è di famiglia ricca, si sa. Ora: dire “famiglia ricca” nel tennis di oggi (che figli di co.co.pro. non se ne parla…), vuol dire “famiglia ricchissima”, famiglia arcimegamiliardaria, con i fantastilioni sul conto corrente.
Papà Ainars, pare sia l’uomo più ricco della Lettonia (non si pensi che in Lettonia sia facile), ed anche questo tanti lo sanno. Non tutti sanno che papà Ainars, del milionario, ha anche qualche atteggiamento non proprio popolare: a Vienna, indispettito da un cameriere che gli stava servendo il pranzo in ritardo, gli lanciò il caffè bollente negli occhi, al modico prezzo di 11.000 € di risarcimento stragiudiziale. A cotanto papà, va aggiunta la mamma bella e attrice che faceva esordire il figlioletto Ernests già a sei anni in qualche produzione televisiva. Va aggiunto che a 14 anni il pargolo aveva i migliori allenatori privati e che nei primi anni di carriera, quando si gira il mondo alla stessa età in cui un non tennista si avventura nelle strade sotto casa, qualche strappo dal jet privato di famiglia se l’è pure preso per arrivare puntuale ai primi turni dei tornei.
Insomma, li abbiamo conosciuti tutti, nel loro piccolo, gli Ernests figli di papà. E se non abbiamo goduto in via indiretta della loro fortuna, se non abbiamo banchettato anche noi al tavolo in cui essi consumavano incoscienti, se non abbiamo raccolto almeno qualche briciola caduta, la parola simpatia ce la siamo tenuta stretta per noi. Ernests, invece, è simpatico perché ha scavato un solco tra sé e l’immagine di ricco e vincente, ribellandosi a tutto ciò prima che noi glielo potessimo rinfacciare. E non potendo dilapidare il patrimonio immenso del padre, nella sua ribellione ha cominciato a dilapidare il suo. A sentirlo per un istante solo, la “paghetta” di papà e quella che madre natura tennisticamente gli ha dato, le ha sperperate in feste, donne e alcool. Charles Bukowski da quello stile di vita ha ricavato una bibliografia, Ernests per il momento solo qualche aforisma, ma il tempo gioca a suo favore.
Da principe scalzo ha girato per anni il tour professionistico, a tratti impressionando, a tratti avvilendo. Mai anonimo tranne che per una ricercata e compiaciuta similitudine in campo (e fuori) con Marat Safin. Ha avuto il tempo di visitare la fabbrica dove gli preparano le racchette e di chiedere scusa per averne rotte 64 in una stagione. Si è preso in giro, infinite volte, anche in questo anticipandoci tutti. Ripercorrete le sue dichiarazioni dopo i gli incontri in cui usciva sconfitto. Prima di potergli dire “hai perso perché non te ne importa… hai perso perché avevi già vinto quando sei nato…”, lui già si auto-offendeva con stile. Se voleva descriversi poco offensivo e aggressivo in campo, diceva di avere giocato da “spagnolo”. Nessuno si è mai scandalizzato o ha chiesto scuse e smentite: se lo sai fare, puoi pure offendere un popolo intero.
A differenza di Bernard Tomic, cui lo si associa, non ha mai minimizzato il suo giocar male. Non ha mai sorvolato sul talento sprecato: ne ha raccolto i cocci infranti ed ha provato a darci spesso una spiegazione. Ancora, a differenza di Tomic, è riuscito ad anestetizzare la figura di un padre scomodo. Non giacerà mai con sua madre, ma Ernests Edipo Gulbis, è riuscito ad uccidere Ainars per poter raggiungere i suoi obiettivi.
Non sa solo parlare od affrancarsi il ragazzo, oggi finalmente trentenne e quindi nel decennio di chi vince cose importanti. Nel braccio ha sempre avuto qualcosa Ernests Gulbis, qualcosa di differente. Qualcosa che trovi di rado e che ti impone di parlare di lui anche se è 145 del mondo, anche se ha perso secco in due set. Da bordo campo di un anonimo laterale del Foro Italico, anni fa lo vidi in riscaldamento. Aveva appena buttato fuori Federer, era il 2010, e per vedere lo svizzero mi costrinse ad accontentarmi di un doppio. Il nostro figlio di papà si ribellava ancora una volta, ma questa volta alle leggi della fisica. Si riscaldava prima del suo quarto di finale. Dopo i primi palleggi, pochi minuti passati a sgonfiare le palline, queste presero a viaggiare più spedite. Nulla nella postura del nostro, rispetto ai primi annoiati palleggi, pareva mutata, tranne la velocità dei colpi. Egli attendeva la palla di ritorno sempre senza alcuna frenesia, senza che il suo corpo anticipasse niente di quello che di lì a poco sarebbe stato. Quindi, indifferentemente di dritto o di rovescio, apriva senza sforzo, senza strappo, senza tensione. Quasi un dovere.
Se avessi potuto toccare in quel momento i muscoli di Ernests Gulbis mentre preparava il colpo, li avrei sentiti rilassati come lo furono in una cella di sicurezza a Stoccolma, quando ci finì una notte per avere ingaggiato una prostituta. Oppure rilassati come ad una delle sue feste, dopo la seconda vodka Beluga. Seconda bottiglia, naturalmente. In quella atarassia tennistica accadeva qualcosa che io non comprendevo ad occhio nudo. Un impulso elettrico (forse, dico forse…) percorreva Gulbis e incanalato da braccia, mani e racchetta, generava una spinta sulla palla devastante e misteriosa. Non la seguiva uno sbuffo, non la seguiva una smorfia, e neppure il pensiero di stare generando un prodigio. Filava via un missile percosso da una piuma. Di tennisti così, capaci di non farti capire da dove venga tutta quella energia, di prestigiatori che il coniglio lo sanno tenere ben nascosto, nella mia umile esperienza ne ho visto dal vivo solo un altro, e chi indovina chi è vince un copeco.
Forse quel giorno mi ero fatto ingannare dal suo distacco, dal suo disinteresse, o dal pensiero fisso su quale locale romano frequentare la sera e in quale dei suoi harem infilarsi per la notte. Ma quei palleggi raccontavano una storia diversa, profondamente diversa dallo stereotipo del bambino viziato e che era lì perché ricco. Naturalmente un ribelle vero, è un ribelle sconfitto. Un ribelle che vince smette di esserlo, diventa establishment e se continua a ribellarsi diventa dittatore. Immaginate Ernests Gulbis, da Riga, diventare numero uno del mondo. Certo, non sarebbe stata un’impresa semplice in questi tempi di vacche grasse, ma se credete a quei palleggi di Roma, non impossibile. Ricchissimo e vincente. Avrebbe fatto peggio di Federer. Le adunate oceaniche già viste sotto i balconi dello svizzero, al confronto con quelle del Lettone, sarebbero sembrate la Leopolda dopo il referendum costituzionale.
Perdere al Lettone serve e come. Quasi più di vincere. Gli serve il contatto devastante con il suolo per continuare a scavare un solco generazionale e per continuare ad essere amato da chi segue il tennis e non le classifiche. Tsitsipas non fa testo, per di più in una finale. Queste sono sconfitte normali, quelle che ci stanno, quelle non da lui. Ora partirà il solito coro di chi dice: “Sta a vedere che è la volta buona che mette la testa a posto e vince qualcosa di importante”. Io a dire il vero non ci credo. Una rondine non fa primavera specialmente, poi, non a fine ottobre. Ci sono ancora due tornei ai quali potrà affacciarsi prima dell’inverno, prima di due mesi nei quali stare a casa ed allenarsi, fare vita sana e contenere la sua ribellione. A gennaio tornerà in campo e vedremo chi ha avuto ragione. Quelli che credono nel lieto fine, o quelli che si sentono già soddisfatti del finale di Braveheart. È tornato più volte nel bozzolo cercando di rinascere farfalla, senza grandi risultati. Alle volte ne è uscito falena, come quando è riapparso due anni fa con un dritto la cui apertura ha fatto gridare all’orrore. Alle volte ne è uscito come prima, perché costava troppa fatica e alle volte è rimasto nel bozzolo, perché quello che c’è fuori gli è sembrato eccessivamente normale.
Agostino Nigro vive e lavora a Napoli Nord. Ha costruito le sue scarse fortune tennistiche sul proprio rovescio ad un mano, eppure vive di diritto.