Karolina Pliskova
Dopo la semifinale raggiunta inaspettatamente al Roland Garros 2017, ci si è incominciato a chiedere se Pliskova non fosse diventata una tennista più da superfici lente che veloci. Le statistiche di carriera lo smentiscono, ma i risultati degli ultimi tempi sono in controtendenza. La semifinale di Singapore 2018 (che si aggiunge a quella del 2017) va effettivamente in questa nuova direzione.
In sostanza si tratta di capire se per Karolina sia meglio un campo rapido, che la agevola negli ace e nei vincenti immediati, oppure uno lento che invece le permette di mascherare meglio i limiti nella mobilità e nel gioco difensivo. Ma c’è anche un aspetto mentale da considerare: dopo aver deciso di separarsi dal coach David Kotyza (settembre 2017), Pliskova ha spiegato che non condivideva l’idea di praticare un tennis molto aggressivo, e di preferirne uno più riflessivo. Quindi scambi mediamente più lunghi e articolati.
A Singapore questa indole poco propensa al rischio è emersa nella gestione del servizio: appena sesta per numero di ace per match (2.8, dato quasi incredibile per una giocatrice con la sua battuta), ma anche pochissimi doppi falli (1.8 a match). E proprio questo dato indica che non aveva intenzione di prendere azzardi in battuta. Scelta tattica che, per una tennista con le sue caratteristiche, non condivido.
In semifinale contro Stephens partiva da una oggettiva condizione di vantaggio, visto che aveva usufruito del giorno di riposo, al contrario della sua avversaria. Karolina ha iniziato benissimo, ma poi si è spenta progressivamente quando Sloane, nel secondo set, è finalmente entrata nel match. In sostanza dopo aver sfiorato la vittoria per KO (avanti 6-0, 2-0 con occasioni per il 3-0) non ha saputo reagire alla nuova situazione che richiedeva un atteggiamento diverso. Un calo sia fisico che mentale: difficile dire quale dei due sia arrivato prima e sia stato più decisivo (0-6, 6-4, 6-1).
Kiki Bertens
Esordiente al Masters, Bertens ha trovato posto grazie al forfait di Simona Halep, e a conti fatti si è dimostrata del tutto all’altezza del ruolo. A Singapore ha confermato quanto di buono mostrato nel resto della stagione: con due vittorie ha superato il girone, a dispetto delle valutazioni dei bookmakers che la quotavano ultima fra le otto. Grazie ai successi nel round robin ha portato a dodici le vittorie contro Top 10 ottenute nel 2018 (nessuna meglio di lei). In semifinale contro Svitolina ha lottato per due ore e 38 minuti, in una battaglia che si è decisa su pochi punti (7-5, 6-7(5), 6-4), svantaggiata anche dal non avere avuto il giorno di riposo.
Come detto, sono convinto che la superficie lentissima di Singapore abbia finito per penalizzare tutte e otto le protagoniste, limitando le loro opzioni di gioco. Però tutto sommato Kiki ha mostrato più di altre di avere un tennis adatto ad affrontare i problemi del campo: l’ha aiutata il “toppone” di dritto (forse il colpo più carico di spin tra le giocatrici del Masters) che le ha permesso di avere comunque una soluzione difficile da gestire per le avversarie; mentre con lo slice di rovescio ha saputo mixare intelligentemente la parabola profonda con quella corta (smorzata).
E visto che il modo più accessibile di ottenere vincenti rapidi era forzare il servizio, ha spinto al massimo in battuta, chiudendo il torneo con la seconda media di ace per match (3.7, solo Osaka ha fatto meglio), ma anche con più doppi falli di tutte (6.3 a match). A dispetto del saldo negativo tra ace e doppi falli, secondo me ha fatto la scelta giusta, visto che l’alternativa era logorarsi entrando nello scambio in ogni quindici. Ormai per lei la stagione è finita e dunque sarà interessante capire come andrà il 2019: saprà confermarsi, addirittura progredire ulteriormente, o il 2018 rimarrà il suo picco di carriera?
a pagina 4: Le finaliste: Stephens e Svitolina