Forse non molti sanno che dietro alle cristalline immagini ed ai suggestivi replay che si vedono su TennisTV o su Sky durante i tornei Masters 1000 c’è un’importante mano italiana. Che a volte si lascia pure trasportare dal suo senso artistico e trasforma la ESPN in National Geographic, come è accaduto diverse volte durante l’ultimo Western&Southern Open di Cincinnati, quando durante alcuni cambi di campo si sono visti dei primi piani ad alta definizione delle mantidi religiose che popolano le praterie dell’Ohio. Fabrizio Fornasiero, padovano di nascita ma ormai bolognese di adozione, è uno dei punti fissi della squadra di cameramen che porta le immagini del tennis in tutto il mondo. In particolare, lui è quello che si occupa della camera 2, quella posizionata dietro alla linea di fondo, che fornisce le immagini più in primo piano delle fasi di gioco solitamente utilizzate durante i replay. Ci dicono che è una delle camere più difficili, perché bisogna sempre avere pallina e giocatori a fuoco, e a far questo Fabrizio è uno dei più bravi del mondo, se non il più bravo.
Dopo esserci mancati diverse volte a New York durante le lunghissime giornate degli US Open, ci sentiamo al telefono mentre lui inganna l’attesa per un aereo che lo porterà a Tokyo per il Rakuten Open.
Quando hai cominciato a lavorare nel tennis?
È stata una situazione fortuita: nel 2003 un amico mi ha chiesto se fossi stato disponibile ad entrare nel team di produzione dei Master 1000. Prima avevo fatto solo i posticipi di calcio, prima per Tele+, poi per Stream e quindi per Sky. In seguito per qualche anno avevo lavorato nella Formula 1 per le emittenti tedesche ARD-RTL. Ma negli anni ’90 ho fatto soprattutto tanti tanti concerti, tanti DVD, e poi ho lavorato per MTV. La prima produzione importante cui ho partecipato è stato il concerto di Vasco Rossi a San Siro, “Rock sotto l’assedio”, ed il tennis ha rappresentato il ritorno allo sport dopo gli anni di MTV.
Che impressione hai avuto del mondo del tennis quando sei arrivato?
L’impatto culturale è stato molto forte, venendo da produzioni molto diverse, per quanto grandi. All’inizio si lavorava solamente con americani e inglesi, poi sono arrivati anche rappresentanti di altre nazionalità e quindi è stato necessario abituarsi a convivere con persone di estrazione molto diversa: sudafricani, francesi, spagnoli…
Cosa ti ha colpito di più all’inizio dell’ambiente del tennis?
Il silenzio, la calma. Tutto si svolge nella tranquillità più totale, un bel cambiamento per chi era abituato ai concerti rock.
Che tipo di studi hai seguito per intraprendere questo tipo di carriera?
Mi sono diplomato all’istituto Professionale di Arti Visive a Bologna, una scuola che oggi non esiste più. Ma a prescindere dalla scuola, ciò che è indispensabile è la passione per ciò che si fa, per questo modo di esprimersi. Io ho scelto di esprimermi attraverso quello che posso far vedere agli altri. Ormai la carta stampata, i libri, stanno quasi diventando elitari, si fa sempre più fatica a leggere la parola scritta: le immagini sono quelle che a mio avviso trasmettono messaggi più completi, ed io mi sento privilegiato ad essere in grado di esprimermi in questo modo.
La tua postazione è quella della camera 2: spiegaci un po’ cosa vuol dire trovarsi in quella posizione e quali riprese di solito ti viene richiesto di fare.
La camera 2 è quella che viene usata per il replay principale. Serve per far leggere il gioco, perché ha lo stesso angolo di ripresa della camera principale, ma è posizionata più in basso. È inoltre “l’occhio del regista”, perché oltre a spiegare nel replay come si sviluppa il gioco, serve per produrre i primi piani degli allenatori, delle fidanzate, di tutto quanto sta a bordo campo.
Questa tua posizione spesso ti fa “soggiornare” nelle tribune VIP, a fianco di personaggi famosi. Ti è mai capitato di scambiare qualche frase con qualcuno di loro?
In effetti capita piuttosto di frequente. A Montecarlo, quando la telecamera principale era nella tribuna d’onore, e non dal lato del mare come capita oggi, la mia telecamera era praticamente dentro ad uno dei palchi. Ricordo che c’era un signore, titolare del palco, con cui ho scambiato diverse battute durante la settimana, e solo alla fine del torneo seppi che era Tommy Hilfiger, il noto stilista. Poi agli US Open, dove la mia postazione è nel bel mezzo della tribuna d’onore della USTA, una volta ho iniziato a parlare con Oprah Winfrey, regina dei talk show americani, che però io all’epoca non conoscevo. È stata molto cortese, si è anche dimostrata molto interessata al mio background, ed alla fine si è pure offerta di fare una foto con me e Gayle King, conduttrice dello show mattutino della CBS Good Morning America, che era seduta di fianco a lei. A me piace ricordare a me stesso che sono un bambino cresciuto a Bologna, che per quanto non sia un paesello, è comunque anni luce rispetto alle realtà nelle quali vengo a ritrovarmi. Se quando avevo 10 anni e sognavo di fare questo mestiere mi avessero detto che sarei stato fianco a fianco con Leonardo Di Caprio, Ben Stiller, Sean Connery…
Prima di iniziare a lavorare nell’ambiente tennistico, che rapporto avevi con il tennis?
Ho giocato un po’ quando ero bambino, ma poi il pallone aveva preso il sopravvento, perché si gioca in cortile con gli altri bambini. Guardavo Wimbledon, gli altri Slam e qualche partita al CRB, il circolo di Bologna che ha ospitato per anni un torneo ATP. Il tennis mi piaceva, guardavo McEnroe, Connors, avevo la maglietta di Agassi. E la prima volta che ho lavorato durante un suo match, mi è suonato in testa un altro “mamma mia”.
Tra quelli nei quali hai lavorato, qual è il torneo che ti piace di più e quello che ti piace di meno?
Non c’è nessun torneo al quale vado mal volentieri. Madrid è il più faticoso, perché vengono programmati sei incontri al giorno sul Centrale, e questo può voler dire terminare davvero tardi per poi riprendere la mattina successiva prima delle 9 per essere pronti a lavorare alle 11. Indian Wells ha una cornice spettacolare ed un’atmosfera molto amichevole, Roma è sempre Roma perché il Foro Italico è meraviglioso, Montecarlo ha dalla sua gli orari civili, dato che non ci sono sessioni serali. Difficile sceglierne uno.
Qual è l’aspetto più duro del tuo mestiere?
Rispetto alle produzioni nelle quali lavoravo prima di entrare nell’ambiente tennistico, c’è una maggiore continuità: il mercato italiano era quasi come un fast food, tutto era rapidissimo, si facevano produzioni di un giorno, per cui toccava correre continuamente. Nel tennis intanto le produzioni durano almeno una settimana, sono solitamente in luoghi caldi e piacevoli, ma l’altro lato della medaglia è che bisogna rimanere lontani da casa per lunghi periodi. Come tutti si cerca di trovare il giusto equilibrio tra professione e vita familiare, ma qualche volta la passione per il proprio lavoro tende a trascinare e si dimenticano le conseguenze sugli altri aspetti della vita. Però, trovarsi davanti campioni come Federer, Nadal, Djokoic, Murray… la fatica e la lontananza vengono quasi dimenticate, tanto sono interessanti queste sfide.
La televisione, almeno dal punto di vista del consumatore, ha vissuto un’evoluzione importante nel corso degli ultimi 10-15 anni, con l’avvento degli schermi giganti ad alta definizione, le smart TV e l’avanzata prepotente dello streaming via internet. Secondo te cosa ci dobbiamo aspettare dalla televisione nei prossimi 10 anni?
Credo che la televisione come l’abbiamo conosciuta continuerà ad esistere in una qualche forma. Dal punto di vista tecnologico pensare oltre al 4K credo sia prematuro: si tratta di un giusto equilibrio tra fruizione e qualità delle immagini. Alle Olimpiadi di Tokyo 2020 tutto verrà filmato in 8K, e forse è esagerato, perché si potrebbe arrivare ad inficiare la presenza del pubblico agli eventi. Sono già state sviluppate applicazioni che possono far rivivere l’evento in VR (realtà virtuale) in un cinema: la Sony sperimenterà la propria soluzione al prossimo Superbowl. Bisogna però fare in modo che non si allontanino gli spettatori dagli stadi, perché un match in un’arena vuota perde molto del suo fascino e scoraggia sponsor e televisioni.
Secondo te come verranno ripresi i tornei di tennis in futuro? Ci sono novità in cantiere?
Nel tennis secondo me esiste un limite strutturale al numero di telecamere che si possono avere intorno ad un campo, perché in fin dei conti per la maggior parte del tempo l’attenzione di tutti è concentrata solo sulla palla. Con 20-22 telecamere si può coprire ottimamente un campo da tennis, massimo si può arrivare a 28. Nella Laver Cup sono arrivati ad avere 56 telecamere, che per me sono eccessive, anche perché il regista fa fatica ad avere occhi su 56 telecamere. Sul campo principale di un Masters 1000 ci sono 15 telecamere, compresa la “spider cam”, più una “beauty cam” che mostra un’immagine fissa degli esterni. Aumentare il numero di telecamere per me non è un investimento intelligente, in fin dei conti i tempi per far vedere immagini “alternative” sono sempre quelli: tra un punto e l’altro, i tempi sono sempre quelli, i cambi di campo sono principalmente dedicati agli spot pubblicitari, anche se ci sono più telecamere per produrre contenuti, poi è difficile trovare i tempi per proporli. Credo ci sia margine per poter far vedere le immagini diversamente, utilizzando tecniche nuove, “svecchiando” il modo in cui il tennis viene offerto che in alcuni tornei, come per esempio Wimbledon, è rimasto indietro di qualche decennio. Con alcuni colleghi ho creato una nuova società di produzione chiamata “Frame set and match” che si propone di portare una ventata di novità al modo in cui i grandi avvenimenti tennistici sono portati nelle case degli spettatori. Abbiamo già avuto qualche contatto con i rappresentanti di qualche importante manifestazione, e il feedback che abbiamo ricevuto è stato molto positivo, anche se c’è ancora del lavoro da fare dal punto di vista del budget. Spero riusciremo presto ad ottenere l’impegno da parte di qualche organizzatore per poter passare dalle idee alla pratica.