Arthur Ashe Stadium, Flushing Meadows Corona Park, New York City – Venerdì 2 settembre ore 23:17
“Game, set and Match Siles. Six Three, Six Four, Seven Six…”. L’annuncio finale dell’Umpire riecheggiò nello stadio tennistico più grande del mondo. Il match più atteso della prima settimana, o forse dell’intero torneo, era concluso. Con la vittoria, secondo pronostico, del numero uno del ranking. Tre set mai veramente in discussione, anche se nell’ultimo il giovane Kiraly era riuscito ad aggrapparsi ai propri turni di servizio con tutta la volontà che aveva, annullando 7 palle break in totale e concedendosi un’ultima passerella di un tie-break alla sua prima esperienza newyorkese. Dopo la stretta di mano a rete e quella all’arbitro, Kiraly aveva fatto la borsa e si era diretto verso lo spogliatoio mentre Siles si era attardato per la routinaria intervista in campo con William Clover di ESPN. Per questo motivo aveva raggiunto l’avversario nella locker room una decina di minuti dopo.
“Congratulazioni Erwin, gran bel match”
“Grazie mille Sandor. Complimenti a te, stai tornando alla grande. Mi hai reso la vita ben più difficile di tanti altri…”
“Non direi. Ho visto bene quanto hai tirato il freno a mano. Su un paio di palle break nel terzo hai mirato di proposito il corridoio. Hai giocato al 60%”
“Ti assicuro che non ho preso il match sottogamba…”
“So cosa vuol dire giocare a tutta nelle tue condizioni. Ci sono passato anch’io. Anche io sono stato onnipotente in campo”
Erwin cominciò a rimuovere il taping dalle caviglie, un gesto automatico che gli diede modo di perdersi in pensieri, cercando di decriptare le intenzioni di Kiraly. Stava parlando semplicemente di uno stato di forma? Oppure sospettava? Oppure, più direttamente, sapeva?
“Avevi un gran bel gioco a Melbourne”
“Molto simile a quello che tu hai avuto da Aprile in poi. Simile, ma apparentemente senza effetti collaterali. Dovresti ringraziare chi ti ha fatto da cavia”
Per Erwin Siles il fatto che Kiraly fosse stato il primo esperimento della Smash non era un segreto. Né il fatto che diventare un uomo bionico avesse la sua percentuale di rischio, che tutte le rassicurazioni in merito della multinazionale non potevano fugare. Ma alla fine aveva rischiato. E fino a quel momento, il rischio era valso la candela.
“Non so se questo sia il luogo più adatto per parlare di queste cose”
“Non ho nulla da temere. Il mio corpo è pulito adesso”
“Il mio lo sarà fra poco più di due ore. Quindi siamo sullo stesso piano”
Se Kiraly era certo al 99% prima, ora aveva ricevuto la definitiva conferma. Erwin Siles era il secondo stadio della sperimentazione della Smash.
“Stai attento con quella roba Erwin. Io ci ho quasi rimesso la pelle. E ancora adesso non mi sento per niente tranquillo”
“Come sai che quello che ti è successo in finale sia dovuto alle nanotecnologie? Un collasso può capitare a tutti”
“Non capisci. Se non sono i nanorobot a ucciderti, sarà qualcun’altro invischiato in questa storia”
Wimbledon, Greater London, Giovedì 30 giugno
“Sandooor! Sandoooor! Qui… Qui Sandoooooor!”
“Mr Kiraly! Mr Kiraly qui!”
La folla di appassionati si era assiepata in un batter di ciglio non appena il giovane ungherese si era congedato dalla trasmissione di Ridle e Coudre per dirigersi verso la lounge degli atleti. Decine di fans lo avevano accerchiato alla ricerca di un autografo. Il beniamino dei tifosi non si era sottratto ai suoi doveri da vip e già da cinque minuti firmava cappellini, fogli di carta, palle da tennis extrasize e tutto quello che gli capitava a tiro. E sarebbe andato avanti ancora per ore perché il numero di persone che lo circondavano invece di diminuire, aumentava. A salvarlo giunse un gorilla dell’organizzazione.
“Signor Kiraly, la stanno aspettando nella sala Perry per quel colloquio”
Sandor seguì l’uomo in completo oltre la zona transennata, su per le scale verdi e viola e chiuse la porta alle sue spalle. In un attimo il rumore del vociare del pubblico scomparve e Kiraly piombò nella solenne e allo stesso tempo serena quiete dell’All England Club. Il suo accompagnatore aprì la porta della sala Perry. Davanti all’entrata, una targa commemorativa ricordava l’eponimo di quella stanza. “Frederick John Perry. Campione nel 1934, 1935, 1936. Portwood, England, 18.05.1909 – Melbourne, Australia, 02.02.1995”.
“Questa Melbourne sembra volere la pelle dei suoi figli tennisti”, disse fra sé, ma ad alta voce, Kiraly.
“È morto per una caduta in bagno mentre si preparava per andare a vedere la finale degli Open…”, gli rispose un uomo dall’altro lato della sala. Sui 55 anni, brizzolato, era accompagnato da due altri figuri più giovani. Un signore sui quaranta e una ragazza sui 25, di etnia asiatica.
“… Agassi-Sampras. Un classico. Me la ricordo come fosse oggi, che gran match. Tu la ricordi, Malcolm?”, fece il brizzolato all’uomo alla sua sinistra.
“Non molto, avevo 13 anni nel 1995…”
“Si accomodi Signor Kiraly. Grazie per aver accettato l’invito a comparire. Non la tratterremo a lungo”
Sandor prese posto di fronte ai tre. Il più anziano, palesemente il capo del trio, continuò con il suo fare cortese.
“Io sono Connor Veyveris, direttore del reparto illeciti della Tennis Integrity Unit. Ai miei lati i miei due assistenti. Il signor Malcolm Stewart e la signorina Yura Sung”
“Molto piacere”
“Piacere nostro, signor Kiraly. L’abbiamo convocata per un episodio riguardante gli ultimi Australian Open…”
Sandor sapeva a cosa stava andando incontro. L’invito a comparire non era vincolante, ma era chiaro che rifiutarsi sarebbe stata una mezza ammissione di colpevolezza. Per cui aveva deciso di giocare al gioco della Tennis Integrity Unit e vedere cosa sapevano loro, se sapevano, del complotto Smash. Lui avrebbe negato se le accuse restavano sul vago. Altrimenti, se le prove raccolte contro lui e la Smash fossero state schiaccianti, avrebbe collaborato per una riduzione della pena. Era stufo di quella storia, di quell’errore che aveva fatto. E quasi era felice di essere stato scoperto, perché la Smash sarebbe stata punita molto più di lui. Come era giusto che fosse.
“Vengo subito al dunque: le domande che dobbiamo porle riguardano lo sfortunato caso del suo malore durante la finale”
“Lo immaginavo”
“Abbiamo analizzato più volte le immagini della sua caduta: posso chiederle cosa ricorda di quei momenti?”
“Poco o niente. Ho lanciato la palla in aria e ho sentito una forte fitta al costato. Poi sono svenuto”
“Ha avvertito un inusuale senso di spossatezza durante l’incontro? E, cosa più importante, ricorda di aver avvertito una scossa elettrica?”. Dove vuole arrivare questo Veyveris? Perché questi giri larghi? Non può andare subito al punto?
“No, nessuna scossa elettrica”
“Grazie signor Kiraly. Un’ultima domanda…”
“Prego, mi dica”
“Rianalizzando le immagini abbiamo notato un particolare quantomeno strano. Nei minuti in cui lei è rimasto incosciente sul cemento della Rod Laver Arena, qualcuno le ha sottratto l’orologio. Sa per caso che fine ha fatto? Può dirci qualcosa su quell’orologio?”
L’orologio? Cosa c’entra adesso l’orologio! Mi stanno prendendo in giro? Oppure davvero mi hanno convocato qui per tutt’altro motivo…
“L’orologio mi è stato restituito la mattina dopo in ospedale dal mio allenatore, Vassily Demtchenko. Il quale l’aveva ricevuto dall’organizzazione del torneo dopo che qualcuno l’aveva raccolto dal suolo mentre mi prestavano i soccorsi”
“L’ha ricevuto o ha detto di averlo ricevuto?”
“Beh, io non c’ero nel momento in cui glielo hanno consegnato, ero in un letto d’ospedale. Quindi sì, è più corretto dichiarare che Vassily mi ha detto di averlo ricevuto”
“Crede, signor Kiraly, che potremmo visionare l’orologio in questione, dal momento che è in suo possesso?”
“Purtroppo non lo è più, mi spiace. L’ho buttato pochi giorni dopo in un cassonetto dell’immondizia”
“E perché mai?”
“Era un regalo di una persona che avevo conosciuto all’inizio del torneo. Una persona che non volevo più vedere, e a cui non volevo più pensare”
Arthur Ashe Stadium, Flushing Meadows Corona Park, New York City – Domenica 11 settembre ore 19:51
Il podio era stato montato nel mezzo del campo con rapidità dai ballboys e altri volontari della USTA mentre ancora il pubblico esultava e scattava foto. Cotillons svolazzavano da ogni parte del campo, venuti giù in massa pochi minuti prima a festeggiare la fine di questa edizione degli US Open e l’ultimo punto che aveva concluso la finale. Bianchi, Rossi e Blu, come i colori della bandiera statunitense, ancora più simbolica nel giorno dell’anniversario del crollo delle Torri. Sponsor, arbitri, organizzatori, testimonial avevano parlato. Aveva parlato anche l’avversario Domratchev, sorridente con il piatto in mano, cosciente e rassegnato del fatto che nessun altro risultato sarebbe stato possibile quella sera. Lui, come tutti i suoi colleghi, ci avevano ormai fatto l’abitudine: Erwin Siles era imbattibile. L’unico dubbio era per quanto lo sarebbe stato. Se le cose andavano bene, il boliviano aveva semplicemente azzeccato la stagione perfetta e dall’anno successivo se ne sarebbe riparlato. Se le cose andavano male, era l’inizio di una dittatura che poteva durare un buon lustro e anche più. Siles ringraziò Domratchev mentre il pubblico rideva. Probabilmente il bielorusso aveva fatto una battuta simpatica ma lui se l’era persa. Era sovrappensiero, troppe cose nella testa in quel momento. Si avvicinò al microfono, guardò in tribuna il box, l’allenatore, e basta. Perché non aveva amici, Erwin Siles. Non aveva una compagna di vita, non aveva una famiglia.
Aveva in volto un cruccio strano, come se avesse perso. Non era felice quanto felice doveva essere chi aveva appena fatto tre quarti di Slam, come chi aveva messo in cassaforte il numero uno di fine anno. Il secondo sudamericano nella storia di questo sport. Appoggiò il trofeo per terra, portò la mano destra al polso sinistro e si slacciò l’orologio, mostrandolo al pubblico. Poi iniziò a parlare.
“Voglio ringraziare una volta di più tutti gli sponsor, l’organizzazione, gli arbitri. Ovviamente Darius, per aver diviso il campo con me oggi, hai giocato un grande match. Ringrazio il mio staff, il mio allenatore. E ringrazio voi del pubblico, siete la ragione per cui scendo in campo ogni volta. Voi, e i vari dollari che intasco a ogni vittoria”
Risate del pubblico, di tutti. Aveva provato Erwin a stemperare ma subito la sua espressione tornò cupa, come l’annuncio che stava per fare.
“Vincere tre titoli Slam per me è un sogno. Era impensabile pochi mesi fa, quando ero fuori dalla top100. Era ancora più impensabile dieci anni fa, quando iniziai a giocare i primi futures in Sud America. Non avrei mai potuto senza l’appoggio di mio padre”. Applausi di tutto l’Arthur Ashe.
“Lui ha dato tutto per me; mi ha cresciuto da solo, mentre lavorava. Mi ha sostenuto finanziariamente, moralmente. Mi ha dato fiducia, seguito per i tornei, non ha badato a spese per darmi un avvenire, ipotecando quasi tutto quello che aveva per pagarmi allenamenti, accademie, trasferte, iscrizioni”
“Oggi vorrei tanto festeggiare con mio padre, ma non è possibile. Ha lasciato questo mondo 6 anni fa per una malattia. Ma un pezzo di lui in campo c’è sempre”. Alzò la mano che teneva l’orologio perché fosse ben visibile a tutti. “È lui che mi ha regalato questo orologio. Per la mia prima apparizione Slam, a Parigi. Un mese prima di morire. E per questo lo porto in campo sempre. Perché quando gioco e mi guardo il polso, guardo negli occhi mio padre, e ricordo tutte le cose che mi ha insegnato”. Una lacrima cominciò a scendere sulla guancia sinistra di Siles.
“Mi ha insegnato a lavorare duro per ottenere i propri traguardi. Mi ha insegnato la sportività, la rettitudine. E a essere contento di ogni cosa che si ha. Ed è per questo che ho deciso di ritirarmi dal circuito tennistico: quella che si è appena conclusa è stata l’ultima partita della mia carriera”.