“Sì ma Nadal a 19 anni vinceva già il Roland Garros. Certo Federer non è stato un mostro di precocità ma a 23 anni ha conquistato Wimbledon ed era n.1 al mondo. E poi ricordiamoci che Djokovic e Murray hanno cominciato a mettersi alle loro calcagna già da ragazzini. Infine non dimentichiamo che tanti altri giocatori nati negli anni ottanta hanno scalato la classifica in fretta: Roddick, Gasquet, Tsonga, del Potro, Cilic tanto per fare alcuni esempi. E chissà quanto avrebbero potuto vincere senza i già citati fenomeni”.
Questo è l’armamentario retorico solitamente messo in campo da chi nutre scetticismo nei confronti della cosiddetta Next Gen, termine con cui da un paio d’anni la ATP designa tutti i suoi Under 21. Nel maggio di quest’anno, pure il nostro Fognini si è iscritto al partito con un linguaggio a dir poco colorito. Chiaramente i paragoni sono pesanti e difficili da eguagliare. E altrettanto chiaramente, spaventato da un potenziale crollo di appeal dato dall’invecchiamento delle punte di diamante del suo roster, Chris Kermode, l’acuto boss del circuito maschile, ha deciso di montare un’enorme operazione mediatica per pompare le proprie matricole. Il culmine di questa strategia è stata l’organizzazione delle Next Gen Finals, un torneo dedicato con regole alquanto particolari che, come ben sappiamo, ha avuto luogo a Milano nelle sue prime due edizioni.
Alla fine del 2017, con l’eccezione del fuori categoria Zverev, che già aveva vinto un paio di Masters 1000 e staccato il biglietto per il Master vero e proprio, dare torto agli apologeti del tempo passato era un’ardua impresa. Per la kermesse meneghina si erano qualificati giocatori ben lontani dai vertici del tennis maschile e che al massimo potevano fare la differenza in un 250. Nel corso del 2018 lo scenario però è cambiato sostanzialmente. Oltre alla conferma del portento tedesco, si sono verificati grandi progressi da parte dei tennisti più promettenti della nidiata del 1996 e l’affacciarsi sul circuito di volti ancora più freschi. Così da quattro under 23 nei primi cinquanta (sono compresi anche i ’95 Kyrgios e Edmund) si è passati a dieci, per la delusione dei detrattori della Next Gen. Anche le retrovie della Top 100 pullulano di giovani tennisti pronti ad emergere. E nemmeno l’Italia si è sottratta al trend. Ma andiamo più nel dettaglio di come questa stagione ha segnato un possibile inizio di ricambio generazionale e, soprattutto, chi ne sono gli alfieri.
Un’analisi dei giovani tennisti in ascesa nel panorama mondiale inizia proprio da Sascha Zverev, che già l’anno scorso grazie a ben cinque titoli sul tour di cui due Masters 1000 aveva concluso la stagione da n.4 al mondo, levandosi anzitempo l’etichetta di Next Gen. Ed è ancora lì che ritroviamo il tedesco, giusto alle spalle di tre uomini che hanno fatto la storia di questo sport. Di questi e del quarto Beatles Murray, solo Nadal aveva vinto più partite e titoli all’età che ha ora il tedesco. Insomma, lui il confronto lo regge eccome. Anche nel faccia a faccia come ha dimostrato alle Finals di Londra dove ha giustiziato in semifinale Federer e in finale Djokovic. Gli Slam rimangono un tabù ma la sensazione è che sia solo questione di tempo. Zverev però di pazienza non ne ha molta e per accorciare i tempi ha deciso di affiancare al papà niente di meno che Ivan Lendl, uno che di Major se ne intende.
Se la permanenza di Zverev ai piani altissimi non era scontata ma quantomeno pronosticabile, più difficile era invece immaginare l’entrata in Top 20 di quattro ragazzi del 1996: Karen Khachanov (11), Borna Coric (12), Daniil Medvedev (16), Hyeon Chung (in realtà al momento 24 ma durante l’anno anche 19). Tutti e quattro avevano preso parte all’edizione inaugurale delle Next Gen Finals. Chung le aveva addirittura vinte, per quello che conta. Ma nessuno di loro aveva impressionato troppo ed era difficile immaginarli salire così in alto nel ranking in così breve tempo.
Coric era stato il più rapido ad affacciarsi sul tour. Ma alla fine del 2017 ci si chiedeva quali fossero i margini di miglioramento di questo croato atipico, dal fisico compatto e dal gioco un po’ difensivo. Il dritto era incerto e i gratuiti troppo frequenti per chi non ha un braccio potentissimo. L’ambizioso Borna però era il primo a scommettere su se stesso e si è affidato alle mani di quel guru chiamato Riccardo Piatti. E ha fatto benissimo. Oggi il fin troppo semplice gioco di parole “CORIaCeo” calza al pennello con un tennista ostico per tutti. E lo ha fatto vedere anche nella sua prima finale 1000 in carriera, a Shanghai, persa con grande onore contro un Djokovic sontuoso.
Al contrario i russi Khachanov e Medvedev hanno iniziato le loro carriera da professionisti in sordina. Oggi però le loro mazzate scuotono il circuito. Più liftate di scuola spagnola quelle di Khachanov, più piatte in linea con la tradizione post-sovietica quelle di Medvedev. Egualmente efficaci. Oltre ai muscoli, Karen ha mostrato anche grande tempismo nella sua prima finale 1000 di Bercy, spazzando via un Djokovic esausto dall’epica semifinale contro Federer. Ma Khachanov si è meritato il successo nel torneo, demolendo in precedenza Isner, Zverev e Thiem, tutti futuri partecipanti al Master. Anche il suo coetaneo e connazionale Medvedev ha ingranato nella parte finale della stagione. Dopo un momento di appannamento nella parte centrale del 2018, Daniil ha dominato il piccolo torneo di Winston Salem partendo dalle qualificazioni. Il russo ha successivamente bissato l’impresa nel più importante ATP 500 di Tokyo, ottenuto battendo in finale l’idolo di casa Kei Nishikori con una prestazione mostruosa. Insomma quando Medvedev centra la settimana giusta è un treno in corsa.
Era invece partito a spron battuto Chung, conquistando la semifinale degli Australian Open grazie ad una splendida vittoria su un Novak Djokovic ancora in fase di rodaggio. Poi sono arrivati gli infortuni. Prima l’anca e poi il piede. E l’occhialuto sudcoreano, che fa del gioco di gambe la sua arma migliore, non ha più ritrovato la forma migliore, dovendo addirittura chiudere la stagione in anticipo.
Potranno migliorarsi ancora questi giocatori e fare l’ingresso in Top 10? L’impresa non sembra delle più complicate per Khachanov che ha soli 300 punti di distanza da Isner e poco da difendere nei primi mesi del 2019. Coric ha un bel malloppo accumulato nel sunshine double e deve continuare a lavorare sulla pesantezza di palla. Medvedev dovrà trovare più continuità. Chung è quello che forse ha mostrato il picco di qualità più alto in assoluto ma avrà bisogno di stare in salute.
A far emozionare il pubblico dell’expo di Milano nella prima edizione delle Next Gen Finals erano stati i talentuosi, ancorché acerbi, Denis Shapovalov e Andrey Rublev. Tennis estroso e personale per il canadese, colpi fluidi e micidiali per il russo. A dispetto del suo gioco vistoso, Shapo ha vissuto la sua prima stagione piena sul tour in maniera poco appariscente. Come si suol dire, è stato un anno di consolidamento per lui. Che alla fine lo ha comunque portato a salire fino alla 27esima posizione. Per andare oltre, il mancino canadese dovrà coniugare al gioco spumeggiante maggiore concretezza e acume tattico. Per Rublev il 2018 si è tramutato sostanzialmente in una battuta di arresto, con la discesa da n.39 a n.68 in classifica. Colpa soprattutto di un infortunio alla schiena che gli ha fatto saltare praticamente tutta la stagione su terra ed erba. Ma alle ultime Next Gen Finals ha mostrato segnali incoraggianti in vista del 2019.
E veniamo proprio ai dominatori della ultima edizione del torneo milanese, nonché le più interessanti matricoli di questo 2019: Stefanos Tsitsipas e Alex de Minaur. Difficile aggiungere ancora qualcosa se non raccontare i numeri della loro ascesa in classifica: da 91 a 15 per il 20enne ateniese, da 208 a 31 per il 19enne di Sydney. Ma ciò che colpisce di più di questi due precoci talenti è l’atteggiamento da consumati veterani con cui stanno in campo e la tranquillità con la quale gestiscono i momenti decisivi. E poi, seppur con le loro differenze, sono entrambi molto divertenti da vedere. Tsitsipas è dotato di un tennis classico e pulito, con una notevole propensione offensiva e un pizzico di sana follia. De Minaur rappresenta il prototipo del giocatore atletico di spinta da fondocampo ma, come tutti i giocatori australiani, possiede un’invidiabile completezza tecnica. Per il greco salire ancora, dove l’aria si fa rarefatta, sarà durissima. Ma il suo talento vale la Top 10. Il cangurino invece potrebbe facilmente compiere altri balzi in avanti, sfruttando il fatto che nella prima parte di questa stagione si alternava tra Challenger e circuito maggiore.
A chiudere la carrellata di giovani in Top 50 ci sono gli americani Frances Tiafoe (n.39) e Taylor Fritz (n.48). I dati dicono che le loro stagioni sono state più che positive. Tiafoe ha quadruplicato le sue vittorie nel circuito maggiore, passando dalle 7 del 2017 alle 28 del 2018, e conquistato il suo primo titolo ATP a Delray Beach. Sorprendentemente per un tennista americano, il 20enne del Maryland se l’è cavata egregiamente anche sulla terra rossa. Dal canto suo, Fritz sembrava quasi un talento smarrito alla fine dello scorso anno. Grazie anche a Paul Annacone, ex coach di Sampras e Federer tra gli altri, il californiano ha saputo ritrovarsi piano piano, partendo dai Challenger. Ci sono però dei punti interrogativi su di loro. Il primo riguarda ovviamente la discrepanza tra l’hype creato attorno a loro da un’America ormai alla disperata caccia di un campione e la realtà di due tennisti al momento nettamente inferiori ai loro migliori coetanei. L’altra riguarda i margini di crescita di entrambi. Per quanto sia uno personaggio estremamente simpatico, con quel suo animo giocherellone, Tiafoe palesa la mancanza di un colpo killer che lo renda capace di controllare il gioco. Il più introverso Fritz è invece dotato di questa potenza di fuoco ma limitato da un gioco di gambe molto sotto il par.
Paradossalmente, il ricambio generazionale si fa meno evidente nella parte bassa della Top 100, con solamente altri sette giocatori nati dal 1996 in avanti. Segno che chi ha le qualità per bruciare le tappe lo ha già fatto mentre per altri la crescita sarà più graduale. Il primo nome è quello del nostro Matteo Berrettini che ha dimostrato di essere chiaramente la miglior speranza del tennis italiano negli anni a venire. Dopo il successo al prestigioso Challenger di Irving, il 22enne romano ha trasportato la sua fiducia anche sul tour maggiore, riuscendo addirittura a conquistare il suo primo titolo a Gstaad. Oltre al servizio poderoso, di Berrettini impressiona la maturità agonistica. Insomma anche noi abbiamo il nostro Next Gen.
Più indietro troviamo lo spagnolo Jaume Munar e il francese Ugo Humbert, che portano sulle spalle il fardello di due bandiere ingombranti. Munar, prodotto dell’accademia di Rafa Nadal, è il tipico giocatore spagnolo: colpi in top e tanta grinta. Ma il talento e il punch sono limitati. Di Humbert si parla un gran bene ma finora si è distinto solo a livello Challenger. Chiudono il cileno Christian Garin, il polacco Hubert Hurkacz e lo statunitense Reilly Opelka. Poco fuori dalla Top 100 si trova Felix Auger-Aliassime, primo giocatore nato nel nuovo millennio a vincere un match ATP. A dispetto ad un’aurea da predestinato, il giovanissimo canadese si è dato un gran da fare in questa stagione, girando per il mondo e disputando una inusuale quantità di tornei sulla terra battuta considerata la sua provenienza. Un bagaglio che gli potrebbe tornare utile in vista del 2019, l’anno della sua possibile esplosione.
In definitiva, oggi più di un quarto dei giocatori all’interno della Top 100 hanno meno di 22 anni. Diversi di essi occupano posizioni di primo piano e potrebbero essere protagonisti nella prossima stagione. “Eh ma solo Zverev ha chance in uno Slam”, “eh ma una volta erano anche di più”, “stanno solo sfruttando il calo inevitabile dei giocatori più vecchi”, controbattono gli haters. Tutto vero. Ma la tendenza al rinnovamento è chiara e inequivocabile. E forse bisognerebbe iniziare a dare a Sascha ciò che è di Sascha e a Stefanos ciò che è di Stefanos.