(foto Chryslène Caillaud, @Sport Vision)
Lo scorso 8 settembre, a New York, in una finale destinata a rimanere nella storia per motivi non tutti edificanti, Naomi Osaka vinceva il primo torneo del Grande Slam della sua vita. Era un successo schiacciante quanto inatteso eppure, già pochi mesi più tardi, Naomi è a un passo dal fare un bis che al femminile non riesce dai quattro major consecutivi di Serena Williams a cavallo tra 2014 e 2015.
La metà australiana di questa striscia di tredici vittorie Slam ha mostrato Osaka come una tennista con un gioco pressoché immutato, ma con una testa ben diversa. Nella scorsa stagione, Osaka aveva giocato un terzo set soltanto in sette incontri su sessantaquattro: vittoria o sconfitta, ogni risultato era sempre a senso unico. Quest’anno invece è già a quattro in neppure due tornei, inclusa la semifinale vinta per 6-2 4-6 6-4 contro Karolina Pliskova. Il che significa certamente più fatica ma, dal punto di vista della giapponese, è sintomo di una maturazione emotiva importante: “Ho imparato che nelle situazioni di svantaggio, a volte, non ci provavo al 100%. Accettavo semplicemente che avrei finito per perdere. Perciò in questo torneo mi sono focalizzata non tanto sulla vittoria finale, quanto nel dare il massimo su ogni punto”.
Un mantra rivelatosi fondamentale per battere Pliskova. Osaka racconta i suoi percorsi mentali: “Ci sono stati momenti in cui ho pensato che il match stava diventando davvero tirato, e che non mi sarei mai perdonata se avessi avuto anche soltanto un piccolo calo di motivazione o un momento di accettazione della sconfitta. Volevo mantenermi carica, non negativa, perché so che ho comunque questa tendenza”. Dalla semifinale è emersa un’altra piccola differenza con la “solita” Naomi, ovvero l’atteggiamento in campo, molto più vocale. Si è visto soprattutto sul match point, quando Osaka ha dovuto chiedere un challenge perché la sua prima di servizio era stata chiamata fuori. Le telecamere la hanno pizzicata con le mani giunte, in preghiera, e poi con le braccia al cielo a esultare quando Hawk-Eye le ha concesso l’ace vincente. “Nel secondo e nel terzo set era diventata molto aggressiva sulla mia seconda di servizio” ha spiegato, “per questo non volevo proprio doverne giocare una”.
Il suo prossimo e ultimo ostacolo batterà ancora bandiera ceca: si tratta di Petra Kvitova, con la quale si contenderà, oltre che il trofeo, anche la vetta del ranking WTA. Nel caso in cui a spuntarla fosse Osaka, diverrebbe la prima numero uno giapponese della storia del tennis, maschile e femminile. “Al momento non ci penso” ha risposto lei, “il mio obiettivo è vincere il torneo. La posizione nel ranking viene dopo. Tendo a fare meglio se mi concentro su un solo obiettivo”. Giusto: anche se il mezzo è lo stesso, meglio pensare soltanto al fine più immediato dei due. Specialmente con i mille punti di Indian Wells in scadenza, che potrebbero mettere inutile fretta a una ragazza che è la migliore della classe d’oro del 1997, quella delle appena maggiorenni negli Stati Uniti (dove vive fin da quando era bambina).
Osaka invece sa pazientare. Della sua ascesa, che può sembrare una esplosione improvvisa, tiene bene a mente le tappe intermedie, i fallimenti lontani dai riflettori. “Cavolo, a me pare che ce ne sia voluta!” ha detto ai reporter nel suo tono a metà tra timidezza e informalità. “Forse il mio tempo scorre più lentamente del vostro, però mi ricordo tutti i terzi turni persi prima di quest’anno”. Ma Osaka lo aveva detto, dopo il successo a Flushing Meadows: non voleva essere definita da un solo torneo, ricordata per quello. È con questa consapevolezza che ha sfruttato l’off season anche per fare i conti con il suo nuovo ruolo di favorita per i grandi tornei, e sfruttarlo al meglio. “Amo gli Slam, sono i posti in cui capisci che tutta la fatica vale la pena. Ce ne sono soltanto quattro ogni anno, quindi voglio fare il meglio che posso quando sono qui”. Del resto con Naomi è quasi sempre così, non ci sono formule segrete, soltanto la semplicità. Bella, e vincente.