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Mezza giornata, poco più, all’attesissimo epilogo dell’Australian Open 2019 femminile; un torneo che, tra gli altri, ha avuto l’indiscutibile pregio di esibire uno spettacolo, e un coefficiente di tensione emotiva, notevolmente superiore rispetto all’omologo maschile. Là dove s’era capito allo scambio uno del turno primo che Nole e Rafa avrebbero dovuto combinarne di gravi per andare a casa prima della finalissima, le ragazze hanno tenuto alti i livelli di gioco e incertezza molto a lungo: arrivate ai quarti, sostanzialmente tutte, forse con la sola eccezione di Danielle Rose Collins, comunque avvezza a interpretare di tanto in tanto la parte del coniglio domiciliato nel cilindro, potevano ambire a raccogliere i favori di qualsivoglia pronostico. Se non è detto tutto, è detto molto. Si aggiungano al menù quella che per distacco è stata la partita più clamorosa del torneo, con la rimonta di Karolina Pliskova sotto uno a cinque nel terzo contro una Serena lanciata verso l’agognato Slam numero ventiquattro, e a piacimento una delle tante gioie regalateci da un paio di settimane rincuoranti non poco: produzione dello spettacolo ottima, con gradimento di pubblico e maggiorenti vari.
Ne dovevano uscire due, anche se i due posti in prima fila se li sarebbero meritati in tante. Non più di Petra Kvitova, obietterà qualcuno a cui volentieri ci accoderemo. La più dominante, ci si perdoni il termine mutuato da cronache di sport in cui il gergo sopra le righe sembra indispensabile a rendere lo spettacolo degno di essere visto, è stata proprio la ragazzona da Bilovec, una che un paio d’anni fa, accoltellata alla mano da scellerato rapinatore tra le mura domestiche, non aveva certezze circa la possibilità di tornare a impugnare una racchetta. Mesi difficili, “ma non ho mai pensato di smettere per davvero, anche se il percorso di recupero è stato molto duro”. Eccome, con momenti di sconforto puro, cristallizzatisi lo scorso anno nella sconfitta al primo turno dell’amato Wimbledon contro Aliaksandra Sasnovich e ancor più nell’esordio qui a Melbourne ceduto ad Andrea Petkovic: “Non mi sono mai sentita così male su un campo da tennis come quella volta”. Poi la storia è girata, in una stagione al solito ondivaga ma trapunta di momenti folgoranti, specie nella prima parte: cinque titoli e un salto di ritorno nella top ten, con ventidue posizioni guadagniate e una luce di nuova speranza negli occhi grigi.
Andrà a caccia dello Slam numero tre dopo la doppietta segnata a Church Road, dove raggiunse l’ultima finale in un Major prima di quella in programma domani sulla Rod Laver Arena, quasi cinque anni fa. Non sarà facile, tuttavia: dalla parte opposta della rete l’aspetta Naomi Osaka, la ventunenne giapponese d’America con in testa l’idea di dominare il tennis in gonnella di qui a breve, se possibile: per lei seconda finale Slam consecutiva dopo l’exploit di New York, anche se guardando al curriculum degli ultimi mesi di exploit sarebbe saggio non parlare. Dal trionfo nella caciara dell’Arthur Ashe, e ad eccezione delle Finals a Singapore affrontate con il serbatoio vuoto, Naomi ha raggiunto le semifinali in tutti i tornei a cui ha preso parte. Per ora le manca il killer instinct, il colpo di reni per anticipare le rivali a un passo dal trofeo, ma il tempo è galantuomo e soprattutto dalla sua parte. Le grandi occasioni non la mettono in imbarazzo e i due titoli per ora in bacheca, Indian Wells e US Open, entrambi vinti lo scorso anno, sono lì a dimostrarlo.
“Lei è molto aggressiva – ha confermato Petra parlando della giovane rivale – ma lo sono anch’io. Penso ci aspetti una grande partita”. Può essere. Si ballerà sul filo del caldo torrido, della paura che accompagna ogni gestione dei momenti senza ritorno, della resa al servizio e della capacità di scattare più veloci dai blocchi. Trattando di questioni squisitamente tecniche, pare che gli ultimi due ambiti di confronto potrebbero essere quelli dirimenti. Osaka e Kvitova sono le migliori battitrici dell’Australian Open 2019: Naomi guida la classifica degli ace con 50 punti fatti al servizio senza far toccare la palla all’avversaria, mentre Petra, che nella speciale classifica è dietro, ha comunque spadroneggiato in materia vincendo il 92% dei game trascorsi in battuta: se la fifa non farà novanta, un break incassato potrebbe dare una bella direzione alla faccenda.
Chi ben inizia, eccetera. Questione di straordinaria importanza, si diceva: Kvitova ha vinto le ultime ventidue partite giocate nei Major quando ha conquistato il primo set. Impressionante? Affermativo, ma non quanto l’analoga statistica riguardante la sua collega. Osaka (in tutte le competizioni) ha stretto la mano all’avversaria da vincitrice le ultime 59 volte che la prima frazione è finita tra le sue braccia, eguagliando così il record detenuto in coabitazione da Serena Williams (Berlino 2002-Roma 2003), Wendy Turnbull (Eastbourne 1981-Australian Open 1982) e Martina Navratilova (Eastbourne 1986-Houston 1987). Strisce del genere sono fatte per essere interrotte, ma portarsi sull’uno a zero, domani, potrebbe non essere una cattiva notizia.
Com’è arcinoto, ad alzare la posta ci si è messa anche la classifica, che da lunedì eleggerà l’erede di Simona Halep, quest’ultima in procinto d’abdicare dopo quaranta settimane da regina. Il suo posto verrà preso dalla campionessa dell’Happy Slam 2019, la cui finale è per il secondo anno consecutivo sede dello spareggio con in palio il numero uno del ranking. Nel 2018 Caroline Wozniacki conquistò tappa e maglia, tornando sulla cima della graduatoria femminile sette anni dopo l’ultima apparizione. Dovesse spuntarla, la ventunenne Osaka diventerebbe la più giovane numero uno proprio dai tempi di Wozniacki, la quale raggiunse l’obiettivo l’undici ottobre del 2010 ad appena vent’anni.
Generalmente si addebita a Kvitova l’incapacità di vincere con costanza, considerate le generose doti di talento e potenza donatele da madre natura, eppure a nemmeno ventinove anni il tempo per arricchire un palmarès comunque non sguarnito (ventisei titoli in trentatré finali) c’è tutto, specie in un momento storico privo di avversarie invincibili: riuscisse a mettere in bacheca il suo terzo Slam, Petra sarebbe infatti la nona giocatrice diversa a imporsi negli ultimi nove eventi di pari categoria. Che nove Slam consecutivi siano andati a nove giocatrici diverse è accaduto una sola volta nella storia del tennis femminile, in era ampiamente pre-Open, tra l’Australian Open 1937 e quello del 1939. Stanti così le cose, e trovando un minimo di stabilità emotiva, lo spazio per diventare la nuova atleta di riferimento per qualche tempo c’è ed è a sua disposizione.
Ma Naomi è ostacolo altino, ormai s’è capito. La giapponese va di fretta: Sascha Bajin, un tempo uomo di fiducia e sparring al fianco di Serena e Vika Azarenka, è l’insospettabile artigiano cui è stata affidata la difficile missione di sgrezzare il diamante, e i risultati per ora non sono malaccio. Un Major è già in salotto, mentre le posizioni scalate negli ultimi mesi sono addirittura sessantotto e non fatichiamo a presumere che il livello di fiducia sia al massimo della carica.
Le due ragazze sono accomunate da un atteggiamento sorridente e solidale fuori dal campo e da uno stile aggressivo e soverchiatore dentro. Gli allibratori offrono quote sostanzialmente identiche e noi volentieri concordiamo. La finale per quanto visto sin qui è la migliore possibile per un torneo che ha regalato molto più di quello che avremmo sommessamente osato chiedere. Godiamocela tutta perché ce lo meritiamo.