Se il tennis viene spesso coinvolto in polemiche, se non addirittura battaglie, riguardanti le questioni di genere, il razzismo è fortunatamente diventato con gli anni un problema marginale per lo sport con la racchetta. Arthur Ashe a cavallo tra gli anni 60 e i 70, e le sorelle Williams alla vigilia del nuovo millennio, hanno contribuito a portare esempi forti e positivi di tennisti afroamericani, rendendosi pian piano icone universali.
Nel segno di Serena, anche Naomi Osaka si sta trovando coinvolta in una battaglia sul colore della pelle, anche se più silenziosa e lontana da quella del suo mito. La nuova stella del tennis femminile, da stamattina ufficialmente prima numero uno WTA asiatica della storia, è figlia di una giapponese e di un haitiano, condizione che in Giappone la rende una “hafu”. Il termine, che sta a indicare una persona nata dall’unione tra un giapponese e uno straniero, non ha di per sé valenza dispregiativa, ma la sua stessa esistenza mette a nudo la questione razziale nel Sol Levante.
Finora sconosciuto alla maggior parte dell’Occidente, il razzismo nel paese del Sol Levante sta iniziando ad essere percepito dalla stampa e dal pubblico di tutto il mondo anche grazie all’irruzione della ragazza cresciuta in Florida nel panorama sportivo mainstream. È proprio a causa della sua condizione di “hafu” e della sua nuova notorietà che, durante la sua corsa vincente verso il titolo agli Australian Open, Osaka si è trovata suo malgrado a fronteggiare un piccolo scandalo che la coinvolgeva indirettamente.
Nei giorni precedenti al torneo Nissin, una azienda che produce ramen istantaneo, ha lanciato uno spot televisivo in cui delle versioni cartoon di Osaka e di Kei Nishikori affrontano allenamenti e partite nel consueto stile “esagerato” dell’animazione giapponese. Il problema è che la Naomi disegnata ha ben poco a che vedere con la vera Naomi: i suoi capelli sono lisci, il suo corpo è filiforme e soprattutto la sua pelle è estremamente bianca anche per gli standard asiatici. Insomma, se non fosse ovvio che si tratta di lei sarebbe pressochè impossibile riconoscerla.
Lo spot incriminato, la cui animazione è stata affidata a Takeshi Konomi, autore del celebre manga degli anni 2000 Prince of Tennis, è stato portato all’attenzione di Osaka da alcuni reporter occidentali durante la seconda settimana degli Australian Open. Lei, visibilmente concentrata sul torneo, ha preferito ridimensionare la questione per chiuderla in fretta: “Ho parlato con loro, si sono scusati”. Loro sono i responsabili di Nissin, che ha già rimosso il video dalla programmazione televisiva. “Per me è ovvio” prosegue Osaka, “sono mulatta. Non penso che l’abbiano fatto apposta, che si tratti di whitewashing, ma la prossima volta che qualcuno dovrà ritrarmi penso che dovrà prima parlare con me“.
Come è noto a chi ha dimestichezza con questa tipologia di fumetto, la maggior parte delle storie prevede personaggi dai tratti occidentalizzati, spesso anche in maniera esagerata (pelle chiara, occhi molto grandi, corporature dalle proporzioni più floride). Se questo genere di distorsione non causa problemi quando si tratta di personaggi di fantasia, è ben diverso quando a essere ritratto è un atleta famoso. Quella di alterare i connotati di Osaka non è però una scelta casuale, ma rappresenta piuttosto l’immagine “perfetta” del corpo per il pubblico giapponese. Di cui Osaka è la sua nuova beniamina, senza però corrispondere ai canoni ideali né agli standard reali.
La ragione per cui Osaka potrebbe aver preso a cuore la questione più del poco – giustamente, visto il momento – che ha mostrato è il suo profondo legame con la famiglia. Non di rado, parlando della propria storia familiare, le è capitato di menzionare alcune difficoltà incontrate dai suoi genitori nel far accettare alla famiglia di lei il matrimonio misto. Nel corso di altre chiacchierate con la stampa, Osaka ha raccontato come per oltre dieci anni i genitori non abbiano rivolto la parola a sua madre Tamaki, di cui porta il cognome.
Una popolarità sportiva sempre maggiore, specialmente a breve distanza dalle Olimpiadi di Tokyo 2020, potrebbe aiutarla a far superare al Giappone parte di questi pregiudizi razziali. A soli ventun anni, farebbe già un grande regalo alle nuove generazioni.