A Miami si è chiusa la prima parte di stagione sul cemento; anche se questa settimana si disputa ancora sul duro l’International di Monterrey, il Premier di Charleston (appena iniziato) sancisce il passaggio alla terra battuta: prima quella verde nordamericana, poi quella rossa europea. Si può quindi tracciare il primo bilancio parziale del 2019: a conti fatti si è risolto in un en plein per la generazione più giovane.
Finora stati quattro gli eventi più importanti disputati, e a conquistarli sono state una diciottenne, due ventunenni e una ventiduenne: Australian Open vinti da Naomi Osaka (nata nel 1997), Premier 5 di Dubai da Belinda Bencic (ugualmente del 1997), Premier Mandatory di Indian Wells da Bianca Andreescu (nata nel 2000), Premier Mandatory di Miami da Ashleigh Barty (1996).
Dunque la più “anziana” delle quattro è proprio la ventiduenne Barty, che compirà 23 anni fra un mese (il 24 aprile). Il successo di Miami non è solo il più importante della carriera di Ashleigh, ma le ha anche permesso di entrare finalmente in Top 10, dopo che due settimane fa a Indian Wells aveva mancato il traguardo per una manciata di punti. Ora i mille punti conquistati a Miami le hanno addirittura permesso di salire fino al nono posto.
1. L’enfant prodige
Barty è nata in Australia, una nazione che nel tennis ha una tradizione antica e luminosa, con una federazione particolarmente ricca grazie agli incassi derivati dalla organizzazione dello Slam. Malgrado questo, c’è stato un periodo in cui il movimento femminile sembrava in difficoltà nel trovare nomi all’altezza del suo glorioso passato; nomi capaci di raccogliere l’eredità, se non di fuoriclasse come Smith Court e Goolagong, quanto meno di una ottima giocatrice come Samantha Stosur, campionessa Slam agli US Open 2011.
Perse per strada due australiane di nascita come Konta e Robson (nate a Sydney e a Melbourne) perché diventate sportivamente britanniche, la federazione aussie a un certo punto ha cominciato a seguire la politica delle naturalizzazioni, “adottando” giocatrici di formazione tennistica europea come Rodionova, Gajdosova, Tomljanovic, Gavrilova. Però, a conti fatti (in attesa di scoprire se riusciranno a sfondare le più giovani Hon, Birrel, Aiava) al momento la giocatrice di maggior successo è risultata proprio Ashleigh Barty, l’unica di scuola tecnica completamente australiana.
Che Ashleigh fosse una ragazzina di notevoli prospettive era apparso chiaro alla federazione già diversi anni fa, tanto da decidere di lanciarla a livello WTA sin dal gennaio 2012, ancora quindicenne, attraverso una serie di wild card nei tornei locali: Brisbane, Hobart, e perfino gli Australian Open. Gli esordi di Barty avevano suscitato molto interesse perché, al di là della giovane età, erano accompagnati da valutazioni dei tecnici particolarmente ottimistiche. In poche parole: si parlava di lei come di una autentica enfant prodige.
Ricordo abbastanza bene la sua prima partita a livello di tabellone principale WTA: a Hobart 2012, contro Bethanie Mattek-Sands. In quel momento Mattek era numero 56 del ranking, mentre Barty numero 674. Mattek vinse 6-2, 6-2. Un punteggio netto e inequivocabile, in cui però lo scarto era stato determinato soprattutto dalla differenza di “cilindrata” fisica: Ashleigh non era ancora strutturata a sufficienza per replicare a Bethanie con una adeguata pesantezza di palla; in compenso però aveva già chiaramente fatto vedere molte qualità.
Qualità non solo tecniche ma anche atletiche: completezza di repertorio tecnico, unita a una estrema facilità nel colpire e nel muoversi durante lo scambio, In lei tutti i movimenti (quelli di spostamento in campo, ma anche quelli specifici di approccio alla palla) risultavano estremamente fluidi, e diventavano un tutt’uno con la meccanica dei colpi. In sintesi: si capiva chiaramente che fosse dotata di un controllo atletico superiore, e che l’insieme del “gioco del tennis” le risultasse molto facile, naturale. E poi, soprattutto dalla parte del dritto, sembrava in grado di gestire la palla con estrema sicurezza, come se avesse sempre tempo a disposizione prima di colpire: segno della capacità di trovare la coordinazione all’istante.
Di recente WTA ha preparato un breve speciale video dedicato a Barty, in cui sono ripercorsi i suoi inizi (che sono raccontati più estesamente QUI). Ad appena 5 anni aveva chiesto in famiglia di poter imparare il tennis e allora era stata accompagnata nel centro sportivo più vicino a casa, a Ipswich (cittadina a circa 40 km da Brisbane). Lì insegnava uno dei tecnici più stimati della nazione per quanto riguarda i giovanissimi, Jim Joyce. Solo che Ashleigh era troppo giovane per gli standard di Joyce, che di solito accoglieva bambini dai 6-7 anni in su. Ma lei aveva così insistito da riuscire alla fine ad avere una chance, e provare a colpire. Giudizio: subito ammessa. All’insegnante era apparso chiaro che avesse un talento superiore: “Non ho mai trovato nessuno con una coordinazione occhio-mano come quella di Ashleigh” spiega oggi il suo primo maestro. Ma non era da meno “nell’attenzione che metteva durante le spiegazioni tecniche. Malgrado fosse la più piccola, e nel corso ci fossero ragazzi con il doppio della sua età, spiccava perché non mi staccava mai gli occhi di dosso mentre parlavo”.
Come quasi sempre per i campioni in erba, è l’inizio di una storia in cui si uniscono talento e applicazione: con il classico muro da consumare a furia di dritti e rovesci, poi i primi successi, i primi viaggi in giro per tornei. Barty diventa una delle più forti junior del mondo, numero 2 del ranking e campionessa di Wimbledon 2011 a soli 15 anni. Fra il 2012 e il 2013 segue il tipico iter di passaggio verso il professionismo alternando impegni junior, ITF e i primi WTA. La sua classifica cresce fino al 129mo posto WTA.
Ma prima che in singolare si afferma in doppio: in coppia con Casey Dellacqua nel 2013 raggiunge tre finali Slam, anche se perdendole tutte (Australian Open, WImbledon, US Open).
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