Quando Boris Becker puntò tutto sul rosso di Montecarlo
Come si poteva battere Roger Federer nel 2005, anno in cui lo svizzero sembrava ammantato da un’aura di invincibilità? Lo si può chiedere a Marat Safin e ad un match point mancato. Oppure a David Nalbandian e ad una caviglia storta pochi giorni prima. E se hai solo diciotto anni, se sei una speranza pronta ad esplodere, come puoi sognare di riuscire in quella impresa? Beh, facile! Basta chiederlo a Rafa Nadal. Ma qui si vuole fare un’eccezione, e chiedere questo ed altro a Richard Gasquet.
In realtà Richard Gasquet aveva già battuto Federer almeno una decina di volte prima di quel quarto di finale. Nelle penne dei giornalisti francesi. Lo aveva battuto quando, mentre Federer ancora non esisteva in quanto tale, già compariva in foto pedo-tennistiche sulle riviste sportive. Lo aveva battuto quando Federer era ancora un progetto di Federer eppure già si cercava il “baby Fed”. Per i francesi, che le balle ancora gli girano, l’esaltazione verso il ragazzino tacciava Roger quasi come un incidente di percorso, un ponte tra l’era Sampras e quella Gasquet.
Quando a Montecarlo i due si affrontarono nel loro quarto di finale, però, i francesi fecero perfettamente i francesi. Minimizzarono (“sans dire…”). Dopo avere esaltato il loro galletto, iniziarono a dargli del pulcino. Dopo avere tanto osannato il prodigio Richard, improvvisamente assunsero l’aria di chi sapeva benissimo cosa fosse la realtà. L’avversario, il Gasquet vecchio, non perdeva da quella omerica semifinale di Melbourne. Veniva dal filotto Rotterdam, Dubai, Indian Wells e Miami. Numero uno del mondo in una maniera indecorosa. All’orizzonte del sole maestoso e svizzero non c’era nulla e le ombre del suo radioso dritto si proiettavano così a lungo da fare il giro del globo.
Perciò quando i due iniziarono il loro match nessuno si aspettava di assistere al cambio della guardia, giusto per usare un’espressione abusata. Ci si aspettava soltanto una partita di tennis che ci avrebbe detto cosa aveva da dire, a sua volta, Richard. Il rovescio di Gasquet incantava e mortificava. La velocità con cui la palla rimbalzava addosso al suo lato sinistro, innamorava. I numerosi gratuiti che commetteva (l’età…), intenerivano quasi come il cappellino all’indietro e l’acne da telefilm e giacche di jeans. Non che Federer da quel lato tirasse meno forte, ma vedendo i due scambiare su quella diagonale si intuivano gli opposti sentimenti.
Da un lato c’era l’insofferenza, il desiderio di ribellione e di libertà dello svizzero, le quali si esprimevano in quel dritto, vendemmia 2005, annata che forse non si vedrà mai più su di un campo da tennis. Dall’altro la serenità compiaciuta di Gasquet, che non era lì per vincere, ma per farsi vedere con indosso il suo vestito migliore. Il suo godere di se stesso, con i limiti di un tennis imberbe. L’estetica racchiusa in uno scantinato di sogni, pronta a diventare legge. Da un lato la fretta elvetica di dover dire qualcosa al tennis ed al mondo prima che il tempo finisse. Dall’altro chi non ha bisogno di correre contro i record di Laver e Borg, chi non ha fatto ancora il suo debutto in società e prima di farsi vedere sulla scena passa le ore ad aggiustarsi i capelli.
E l’inizio fu quello che ti aspettavi da un diciottenne. Qualche errore, un paio di gradevoli saette (non solo dal colpo buono) ma dall’altra parte c’era uno che seppe scappare subito avanti. Richard giocava bello, ma il bello di Federer era più coerente con il match.
Federer avanti due giochi a zero. Gasquet perse il servizio senza protestare, senza far trasparire frustrazione. Routine di un incontro che sarebbe stato dominato secondo tutti. Per comparire, il pathos di un match memorabile, sarebbe bastato attendere il game successivo. Federer breakkato, la rivoluzione francese può cominciare. Dal terzo game del primo set iniziò un match differente, in cui Gasquet procedette ad ondate irregolari e destabilizzanti. Federer salvò il set al tie break dopo essersi trovato anche sotto. Stereotipo vuole che strappato il primo set, il tennista più forte trovasse il secondo in discesa. Invece Federer iniziò ad imballarsi. Dall’altra parte della rete, ad ogni gioco e ad ogni punto, si ritrovò contro un avversario diverso. Tra le risposte irreali ed i gratuiti del francese Federer smise di essere il centro dell’universo, e come gli sarebbe accaduto in futuro con più frequenza, avrebbe perso dritto, pazienza ed incontro.
Nel secondo set perse tre volte il servizio. I colpi di Gasquet lo allontanarono sempre più dal campo e dalla amata linea di fondo, sempre più pericolosamente prossimo ai teloni fino a farlo uscire dal centrale del Country Club non solo perché sconfitto, ma anche perché non erano più tutti lì per lui. In campo c’era solo Richard, nel bello e nel brutto. Quando sbagliava e faceva il broncio le mamme francesi lo volevano consolare. Quando folgorava lo svizzero, e la regia inquadrava Gasquet senior, tutti i Papà Goriot si inorgoglivano del figlio di Francia. Sugli spalti l’alone di invincibilità di quel Federer fece parteggiare lo stadio per il francesino di Beziers, in una maniera che raramente si sarebbe vista in futuro.
La cronaca racconta di un terzo set in cui Federer si arrampicò al tie break, sprecò tre match point e infine fu giustiziato proprio da un rovescio, giocato da talmente lontano da non vederne il punto di origine. A rete, Richard non avrebbe voluto stringere la mano dell’avversario, bensì fare dorso e dorso: gli sarebbe stato più congeniale, ma sarebbe suonato poco urbano ed un filo irriverente.
Allora pare legittimo rivolgere anche a lui, a Richard Gasquet, la domanda su come si potesse battere quel Federer 2005. Ascoltare, imparare da uno dei quattro mortali (forse tre mortali e mezzo) che riuscì a macchiare una stagione tennistica rimasta nella storia. Ciò nonostante, raramente al nostro viene offerto un microfono per raccontarci di quell’impresa. Forse perché da quel momento ne avrebbe perse 17 su 18 contro Roger. O perché perse in semifinale, contro un ragazzino pari età col quale vinceva da junior, e con lui sono state 16 su 16 le volte in cui è uscito dal campo a testa bassa.
A distanza di quattordici anni da quel 15 aprile 2005, lo sconfitto di quel giorno è il numero uno del 2019, mentre Richard non gioca da sei mesi, raccoglie i cocci e aggiusta un’ernia che lo ha costretto ad operarsi. Nel mezzo infiniti infortuni, un bacio alla cocaina ed una nazione che lo ha in parte abbandonato. Il titolo di “baby Fed” se le sono passati in tanti dopo Richard, con fortune alterne anch’essi, ma nessuno di questi porta al collo lo scalpo di un Federer 24enne.
Come ci riuscì Richard? Non è facile da spiegare, ma una cosa può essere detta, e cioè che ci riuscì lui: perché se omaggi pur arrivarono dall’altro lato del campo, essi non furono quelli del Federer contemporaneo, quello che ogni tanto si alza dal lato del letto sbagliato. E va anche detto che non ci fu una tattica particolare, una variazione che il francese produsse quel dì e che non sarebbe più riuscito a produrre in futuro. Giocò dietro, stando sempre vicino agli affezionati teloni di fondo, sempre sbracciando ad un soffio dal naso dei giudici di linea.
Vinse lo stesso Richard Gasquet che abbiamo in seguito conosciuto, che avrebbe vinto tanto ma anche perso troppo. Il tennista che sarebbe stato numero 7 del mondo, ma del quale si è sempre percepita l’infinita distanza dai migliori. E allora perché riuscì in un’impresa come quella ed è riuscito anche a non dare seguito a quel giorno, a restare un’opera sublime ma incompiuta? Si dice spesso che Gasquet abbia ricevuto, sin da bambino, troppa pressione, generato troppe aspettative per un movimento tennistico che produce infiniti, ottimi giocatori, ma mai il migliore. Ma chi dice questo non vede al di là dello specchio. Non lo attraversa, non lo capovolge: si gira sul dritto e non gioca il rovescio, errore mortale se si vuole parlare di Richard.
Chi sostiene questo non osserva che proprio il match contro Federer è stato quello maggiormente a ridosso di quelle pressioni, di quelle aspettative. Quell’incontro si disputava mentre Richard Gasquet aveva ancora nell’orecchie le promesse che altri facevano di sé, l’eco paterna dei suoi sogni e quella della stampa. Il Gasquet che scendeva in campo, nel tardo pomeriggio monegasco, era fresco di illusioni, plasmato da esse in quel tennis bellissimo, incostante ma impossibile. Il Gasquet che batté Federer era più prossimo al bambino che provava i colpi chiuso nella sua stanza contro avversari invisibili che non ad un tennista che si scontra con uomini in carne ed ossa, lui esistenzialista e gli altri stoici. Oppure era più somigliante al bambino che un giorno dovette smettere di fantasticare per posare davanti all’obiettivo di Tennis Magazine, descritto come un profeta, ritratto mentre la palla gli cade a sinistra e lui allena il passante di rovescio che gli avrebbe dato quel match.
Il Gasquet che nel 2005-2007, dai 18 a 21 anni, viveva le sue migliori stagioni tennistiche, a differenza di quello odierno sembrava credere in un sogno infantile e se ne è nutrito come di un latte materno. Sarebbe poi venuto lo svezzamento e la realtà, le cure di allenatori che non lo hanno mai migliorato ma che gli hanno solo dimostrato come nel tennis moderno potesse far molto, ma non tutto. Sarebbero venute le inevitabili sconfitte a cancellare dalla sua mente la comprensibile utopia di essere alle volte Federer, alle volte Nadal, alle volte entrambi e contemporaneamente. Le sconfitte se le sarebbe lasciate sì alle spalle, ma come mattoni a costruire il muro che lo avrebbe separato da quell’entusiasmo. Quel giorno del 2005, a 18 anni, dovette dimenticare solo i primi due games perduti male per creare il suo capolavoro. In futuro sarebbe stato molto più difficile.
Le ali che lo fecero volare nell’aprile 2005 divennero troppo ingombranti per conviverci ogni giorno, specie quando allo specchio Richard le ha viste rattrappirsi. Il sogno che le alimentava, il carburante della gioventù e del non sentire alcun limite si è esaurito e Richard è rimasto a terra, a contare sulla propria fatica quotidiana. Un po’ albatro, un po’ gabbiano ipotetico. Non un sogno che ti si è posato sulle spalle e te le ha piegate per la sua ambizione, ma un sogno che, finché vivo, lo ha sollevato in alto. Il perfetto contrario di quanti tanti sostengono. In altre parole, il perfetto rovescio.