Come sta Simona Halep?
Quello che ci ha detto Madrid 2019 su Naomi Osaka vale tutto sommato anche per Simona Halep: per entrambe il torneo ha dato indicazioni positive sul loro stato di forma, ma non ha chiarito del tutto alcuni dubbi.
Ricordo che Halep si presentava in Spagna con ottimi precedenti: finalista nel 2014 (battuta da Sharapova) e vincitrice nel 2016 e 2017. Quest’anno sembrava essere avviata sulla strada del tris, visto il cammino spedito dei primi turni: 6-0, 6-4 a Gasparyan, 7-5, 6-1 a Konta, 6-0, 6-0 a Kuzmova, 7-5, 7-5 a Barty, 6-2, 6-7(2), 6-0 a Bencic. Poi però, in finale, Bertens l’ha regolata con un doppio 6-4.
Attenzione però a sottovalutare Bertens: i risultati delle ultime stagioni ci dicono che nel circuito WTA le due tenniste più solide sulla terra sono proprio Simona e Kiki. Dunque per Halep l’ultimo ostacolo è stato sicuramente di altezza superiore rispetto ai turni precedenti; però la sconfitta è stata forse più netta di quanto ci si potesse attendere.
A mio avviso l’aspetto meno convincente è che durante la finale Simona ha dimostrato di non riuscire a trovare risposte a due soluzioni di gioco costruite da Bertens: la gestione in corsa del dritto incrociato, e gli spostamenti in avanti.
Primo problema. Sappiamo che Halep ha nel rovescio lungolinea uno dei suoi punti forti: ma nel match di sabato scorso in diverse occasioni si è rivelato controproducente, perché quando non era definitivo Bertens replicava con un “drittone” incrociato carico di topspin che obbligava Simona a colpire in recupero sulla propria destra; una difficile esecuzione in allungo su palla a rimbalzo alto che le ha causato diversi errori diretti, oppure prodotto parabole troppo corte che finivano per metterla in difficoltà nello sviluppo dello scambio.
Secondo problema: i drop-shot di Bertens, e in generale le variazioni che chiamavano Halep in avanti, spesso su palle a rimbalzo basso. Quando Simona non è riuscita a trovare una replica definitiva ed è stata costretta a giocare più colpi nei pressi della rete, sono costantemente emerse difficoltà. A mio avviso oltre l’atteso.
Halep a rete non è mai stata una Navratilova, ma la mia sensazione è che negli ultimi tempi il rendimento sia ulteriormente sceso, come se ai problemi tecnici si fosse aggiunta qualche remora mentale, che la fa sentire ancora più a disagio quando deve eseguire volèe o schiaffi di volo. E non c’è nulla di peggio che un atteggiamento pessimista quando già ci si trova in una zona di campo poco amata.
Ma forse, oltre alle difficoltà tecniche determinate dalla qualità di Bertens, va aggiunto anche un terzo problema del tutto specifico, legato alla questione del numero 1 del mondo. Vincendo la finale, infatti, Simona sarebbe tornata in cima al ranking, e già in passato aveva dimostrato di patire mentalmente questa situazione.
Nel 2017 per tre volte aveva perso il match che l’avrebbe portata al numero 1: la finale del Roland Garros contro Ostapenko, i quarti contro Konta a Wimbledon e la finale di Cincinnati. Nei due Slam si era bloccata dopo aver vinto il primo set, mentre in Ohio contro Muguruza non era praticamente scesa in campo, come se in quel momento fosse convinta di non poter raggiungere quel traguardo. Risultato: sconfitta per 6-1, 6-0 in una partita quasi surreale, mai davvero iniziata.
Quella partita fa il paio con una situazione praticamente identica vissuta l’anno prima da Angelique Kerber contro Pliskova. Anche allora per Kerber il successo nella finale di Cincinnati sarebbe valso il numero 1 del mondo e anche allora Angelique aveva giocato paralizzata dall’emozione, perdendo 6-3, 6-1.
Insomma, a dispetto di quanto spesso le giocatrici fanno intendere nelle dichiarazioni, quasi sempre orientate a ridimensionarne l’importanza, a me sembra si possa dedurre il contrario: il numero 1 del mondo è vissuto come un obiettivo di grande significato, a cui le più forti tengono davvero, e per questo incide molto sulla loro psicologia e sull’andamento di certi match.
Mi sono chiesto perché tante protagoniste tendano a minimizzare, quasi negandolo, questo interesse per il primato nel ranking. La spiegazione più convincente mi sembra legata a una questione di forma, di educazione: affermare “mi interessa molto il numero 1 del mondo” potrebbe sembrare una manifestazione di arroganza, e per questo si preferisce glissare.
Ma secondo me queste remore sono frutto di un malinteso: in una disciplina che definisce costantemente le gerarchie attraverso il ranking è assolutamente comprensibile che raggiungere il vertice sia obiettivo di qualsiasi giocatrice. È perfettamente logico e coerente sul piano sportivo: rimane nel curriculum di ogni tennista, senza che debba essere interpretato come un eccesso di presunzione.
Sotto questo aspetto è stata trasparente Naomi Osaka, quando tra le cause della sconfitta in volata contro Bencic ha citato anche il primato in classifica. Una causa evidenziata da lei spontaneamente, senza che fosse menzionata nella domanda dei giornalisti. Si era verificata questa situazione: Naomi sapeva che la vittoria le avrebbe dato la certezza del numero 1, e come ha spiegato con un certo eufemismo, pensarci mentre giocava la partita “non è stata necessariamente una buona cosa”.
a pagina 3: Kiki Bertens